Appunti sulla Costituzione dopo il Referendum

07 Gen 2017

La premessa è che il voto referendario va preso sul serio. Ogni tentativo di sminuirne la portata — o di ridurlo a mera protesta — è un errore istituzionale prima ancora che politico. Perciò smettiamola di dire che il no è stato soltanto un referendum su Renzi e di mettere tra parentesi il rigetto del merito della riforma costituzionale. Quindi il risultato referendario, in quanto espressione del popolo sovrano, deve fare da guida ai ragionamenti sul da farsi, anche nel senso di tracciare le direzioni in cui una riflessione costituzionale può legittimamente andare nei prossimi tempi.

Partendo da qui, credo che si possano identificare alcuni percorsi diversi e non necessariamente congruenti tra loro — nei tempi, nelle logiche politico-istituzionali, negli esiti (proposte normative, proposte programmatiche, elaborazione politica).

1. Gli Italiani hanno respinto due grandi riforme costituzionali in dieci anni. Forse è arrivato il momento di dire basta, di aprire una (lunga) fase di decantazione. O almeno di dire basta a tentativi di riforma profonda, che cambino la struttura istituzionale della Repubblica e che forzino nella direzione della “governabilità”.

Quello che può valer la pena di fare è manutenzione costituzionale: modifiche limitate e puntuali (effettuate con leggi costituzionali separate e omogenee nelle materie) in alcune direzioni precise, che mi permetto di classificare in termini non di materia, ma di praticabilità nel prossimo Parlamento:

o Facili e facilmente condivise:
– Abolizione del CNEL
– Riduzione bilanciata del numero dei parlamentari

o Fattibili con un po’ di fatica
– Riordino puntuale del 117 (precisazione di alcune competenze, senza una spinta a centralizzare a tutti i costi: due referendum, quello del 2001 e quello del 2016, hanno validato l’impianto di fondo del Titolo V)
– Decostituzionalizzazione degli Enti territoriali intermedi (tutti, per non creare una disparità ingiustificata tra cittadini delle Città metropolitane e tutti gli altri; al tempo stesso è evidente che occorre rimettere mano alla riforma Delrio ed alla normativa regionale applicativa, probabilmente con urgenza maggiore rispetto a qualunque riforma dell’assetto costituzionale degli Enti intermedi)

o Complicate
– Riordino delle norme sulla decretazione d’urgenza e sulle deleghe legislative, con l’obiettivo di riportare l’uso di questi istituti alle loro ragioni costituzionali e non alla convenienza dell’esecutivo (ma ci sono ampi margini per intervenire senza passare dalla modifica costituzionale)
– Modifica delle norme su referendum e partecipazione popolare (rispettando la logica costituzionale di centralità del Parlamento: quindi no a referendum propositivi e/o di indirizzo; qualche azione sul quorum è auspicabile per gli abrogativi; sì invece al rafforzamento dell’iniziativa popolare, con tempi certi per la discussione in Parlamento; una crescita delle forme partecipative di consultazione potrebbe per altro prescindere da riforme costituzionali, in quanto si collocherebbe preferibilmente nella fase ascendente della produzione normativa)
– Riforma delle Autonomie speciali, da ricondurre nell’ambito del regionalismo del Titolo V
– Limitata clausola di interesse nazionale (se non si considera sufficiente il potere sostitutivo previsto dall’art. 120)
– Revisione del 138 per rendere impossibili modifiche costituzionali della sola maggioranza politica pro tempore (come proposto ultimamente da Elisabetta Lamarque [http://www.astrid-online.it/static/upload/protected/lama/lamarque—intervento-aic12-dicembre-2016.pdf]sulla falsariga della proposta di Legge costituzionale 2115/1995 a firma Bassanini, Elia, Ayala, Berlinguer, Napolitano, Mattarella e altri)

2. Per molti anni si è tentato di risolvere una crisi politica (di idee, di consenso, di formazione della classe dirigente) cambiando i meccanismi istituzionali: dalle leggi elettorali alle modifiche costituzionali. Anche se certamente si possono (e per certi aspetti si debbono) affrontare nodi relativi alle regole per rendere praticabile il nostro sistema politico, mi pare che sia arrivato il momento di affrontare la crisi per quello che è: una crisi della politica come strumento di indirizzo e di governo dei cambiamenti sociali ed economici. E quindi ripartire dalle idee, dalla formazione di un’opinione politica consapevole e di massa (e di conseguenza dalla apertura di nuove vie di reclutamento di una classe dirigente adeguata), dal confronto non sulle personalità, ma sulle proposte, sulle grandi scelte di fondo. Questa può essere la sola alternativa vera alle derive populiste da un lato, alle tecnocrazie incapaci di dare risposte ai bisogni delle maggioranze dall’altro. E qui la Costituzione può essere assolutamente centrale: non per discutere come cambiarla, ma per trovare vie per attuarla. Si può trovare nella Costituzione l’indice di un dibattito su tutte le grandi questioni del Paese – con tre scopi diversi:

o Dopo la stagione delle divisioni sulla Costituzione, ristabilirne il ruolo di fondamento e di narrazione unificante della comunità nazionale. Se si prende la Costituzione come riferimento comune per il dibattito politico e ideale, si possono trovare ricette differenti per attuarne le disposizioni, ma tenendo fermo un ancoraggio condiviso ai valori fondamentali. Abbiamo bisogno di questa ricucitura dell’opinione pubblica, della rinascita di un reciproco riconoscimento tra parti avverse: la Costituzione è l’unico terreno comune su cui possiamo incontrarci. E in questo senso la battaglia referendaria ha se non altro avuto il merito di vedere la riaffermazione — da tutte le parti — della validità indiscussa dei Principi fondamentali e della Parte I (detesto l’espressione “la Costituzione più bella del mondo”: ma esprime probabilmente un sentimento comune del quale abbiamo bisogno). Da qui possiamo ripartire.

o Costruire un’agenda di temi per la politica già nella prossima legislatura. Ancora una volta, non credo che si debba cercare un accordo sulle soluzioni “across the board”: ma che sia utile declinare un’agenda delle priorità (parlamentari, ma anche del Governo, di qualunque Governo, e del Paese) partendo dalle indicazioni della Costituzione e attraverso un dibattito nazionale ampio. La centralità del lavoro, la promozione delle condizioni effettive di libertà ed uguaglianza, la finalità sociale della proprietà e dell’iniziativa economica, la partecipazione dei lavoratori alla gestione delle aziende, la questione della cittadinanza e del rapporto con gli stranieri e della protezione dei loro diritti, la riforma dei partiti: sono soltanto alcuni dei temi che meriterebbero di essere posti al centro – sotto la guida del dettato costituzionale – della politica nazionale. Ce ne sarebbe per ben più di una proficua e costruttiva legislatura, in cui a dividere – legittimamente – sarebbe la competizione tra soluzioni diverse a problemi percepiti come comuni.

o Fornire la base di una piattaforma politica dei riformisti. Fabrizio Barca (http://www.huffingtonpost.it/fabrizio-barca/la-mia-proposta-alle-sinistre-del-pd-da-doveripartire-per-ritornare-uniti_b_13691634.html) invita a partire dall’art. 3 per ristabilire un’agenda minima comune della sinistra: credo che la sua proposta sia assolutamente preziosa. Ma mi pare che si debba andare oltre: una lettura orientata dall’art. 3 di tutta la Costituzione può indicare una serie di risposte “di sinistra” all’agenda di cui si parlava sopra. Risposte che – solo per fare un esempio – interpretino il tema dell’occupazione alla luce dell’art. 36 sull’equa retribuzione del lavoro, o quello dell’immigrazione nell’ottica di una attualizzazione dei principi dell’art. 10 e dell’art. 35 ultimo comma, e così via.

3. Occorre però contemporaneamente un pensiero di lungo periodo sulle forme della democrazia rappresentativa nel XXI secolo, avendo il coraggio di ripensare integralmente i contenuti della Costituzione (fin anche i Principi fondamentali e la Parte I!) alla luce dei grandi cambiamenti del mondo contemporaneo. Anche qui mi limito a degli esempi: che cosa significa centralità del lavoro nell’epoca in cui il lavoro sta diventando sempre meno fondamentale nei meccanismi di produzione della ricchezza? E che impatti hanno queste trasformazioni, che oggettivamente marginalizzano le masse popolari, sui modi della rappresentanza e sulla sostanza stessa della democrazia? Quale relazione si può porre tra sovranità popolare declinata sul piano nazionale, istituzioni sovranazionali e globalizzazione economica che sfugge al governo degli stati? Come si declina l’universalità dei diritti umani rispetto al tema della cittadinanza in un periodo caratterizzato da un lato dall’approfondimento dello spazio comune europeo, dall’altro dalle migrazioni su vasta scala? Come si afferma la necessaria dimensione europea sul piano dei diritti, della democrazia, della partecipazione — in una fase di perdurante debolezza del quadro istituzionale dell’Unione e di ripiegamento su stati nazionali sostanzialmente impotenti? Nessuno di questi temi (e dei molti altri che non ho nemmeno accennato) può essere affrontato con l’occhio alle prossime elezioni, o allo scontro politico quotidiano: ma sono argomenti decisivi per l’evoluzione delle democrazie rappresentative e per la loro stessa sopravvivenza come forme vitali dell’organizzazione politica nei prossimi dieci/quindici anni. Se crediamo che la Costituzione italiana sia portatrice di valori da preservare, abbiamo il dovere di cominciare a pensare alle forme con cui si potranno riaffermare tali valori in un contesto radicalmente trasformato; e abbiamo il dovere di farlo a partire da oggi, su un piano diverso da quello dell’azione politica immediata, ma con l’obiettivo di far uscire gradualmente le ipotesi di soluzione dalla speculazione teorica.

Dopo il referendum non dobbiamo smettere di parlare di Costituzione — ma dobbiamo parlarne meglio, entrando nelle questioni di fondo e facendone l’ossatura di un dibattito finalmente politico (politico per davvero!): senza guardare al breve e brevissimo termine, ma con l’ambizione di costruire un orizzonte nazionale, una trasformazione profonda del modo di fare politica. Per questo occorre saper uscire con un messaggio non semplice, non con slogan, dai luoghi di elaborazione (indispensabili) di chi fa politica per mestiere e creare degli spazi di riflessione più ampi (necessariamente non di massa, ma capaci di incidere sulla formazione dell’opinione pubblica). In questo senso la riflessione di Fabrizio Barca sul partitopalestra mi pare di grande interesse (se lo cito due volte sarà per qualcosa…): ma non credo che possa avere successo se confinata dentro un solo partito, sia pure importante come il PD. E’ certamente necessario che i partiti tornino ad essere luogo di elaborazione diffusa — ma oggi non possiamo partire dai partiti, cui gran parte della popolazione (e di quella politicamente attiva in particolare) non dà credito. Ci aspetta un lavoro di costruzione dei luoghi materiali e ideali in cui far crescere una nuova politica a partire dal tessuto comune della Costituzione.

Torino, Dicembre 2016

(*) L’autore dell’articolo è socio di Leg Torino.

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