Guido Calogero e la «terza persona»

04 Gen 2017

 Non tutti possono leggere Guido Calogero. I visitatori occasionali, lo scienziato che cura con freddezza storiografica le opere altrui e i fanatici di professione farebbero bene a cambiare rotta. Calogero va vissuto.

   A trent’anni dalla morte, avvenuta il 17 aprile del 1986, la sua filosofia continua a esprimere una vox clamantis in deserto. In un contesto inquinato dal nichilismo e dalla progressiva mercificazione dell’uomo, andrebbe senz’altro riscoperta la sua innovativa lezione pedagogica. In ogni modo, come ricorda Serge Audier in Le socialisme libéral, le sue riflessioni anticipano l’etica del discorso di Karl-Otto Apel, l’etica della discussione di Jürgen Habermas e il metodo dialogico del liberal Bruce Ackerman. In una recensione pubblicata sull’«Unità» il 23 marzo del ‘97, Stefano Petrucciani scorge una certa affinità tra il suo liberalsocialismo e l’idea di «libertà positiva» avanzata in tempi più recenti dall’economista Amartya Sen. E Norberto Bobbio, in una sua testimonianza, lo accosta al neo-contrattualismo rawlsiano. Per comprendere in profondità il suo pensiero occorre, tuttavia, rimanere in Italia.

   Calogero nasce a Roma nel 1904, dove si laurea a 21 anni in filosofia sotto la guida di Giovanni Gentile e con una tesi importante dal titolo “I fondamenti della logica aristotelica”. Manterrà sempre un rapporto di amicizia con il suo maestro e, contrariamente al suo futuro amico Aldo Capitini, presta giuramento al regime. Nel ’34 diviene titolare della cattedra di Storia della filosofia alla Normale di Pisa e in seguito insegnerà all’Istituto Magistrale di Firenze. Verso la fine degli anni ’30, insieme al profeta della nonviolenza e ad altri gruppi liberali e comunisti, avvia una lotta intensa alla dittatura fascista. Nel ’37 si laurea anche in Giurisprudenza, e con la moglie Maria Comandini inaugura nel ’47 la prima scuola laica per assistenti sociali.

   A partire dalla metà degli anni ’20, elabora un pensiero in stretta sintonia con l’idealismo italiano. Si definisce, infatti, «figlio spirituale» di Gentile e non cela una forte ammirazione nei confronti di Benedetto Croce. I suoi primi studi aristotelici mostrano però un allontanamento dall’attualismo gentiliano e una incompatibilità con l’interpretazione crociana dei «distinti». La filosofia dell’atto denuncia con acume il metodo cartesiano, il dualismo e la dialettica platonica del «pensato», ma a suo parere ripropone una logica che non tiene conto della pura appercezione, dell’intuizione intellettuale, della noésis. L’obiettivo di Calogero, sottolinea Évelyne Buissière, è quello di liberare una volta per tutte il pensiero da ogni presupposto ontologico e gnoseologico.

   Lo dirà in maniera chiara nelle sue Lezioni di filosofia maturate negli anni ’40, ove si sostiene che l’«io» è una soggettività irriducibile, «l’immediato nome del mio sentirmi vivo, del mio esserci al mondo e del mio volere ciò a cui aspiro». L’«io» è un pronome che non può essere vinto, ed è la vera storia dell’uomo, lievitata da una libertà trascendentale che non conosce pause e confini.

   Nel suo celebre volume La scuola dell’uomo del ’39, adotta una peculiare grammatica diretta a svegliare le coscienze. L’ingenuo positivismo, la vocazione imperiale, il nozionismo scolastico, il modello “ordine e disciplina” devono cedere il passo a un altro indirizzo pedagogico. La domanda socratica, rilanciata il secolo scorso dal filosofo ceco Jan Patočka, deve visitare il cuore e la mente dell’insegnante. L’opera di chi soffre per ogni forma di povertà e ancora il dramma della verità, che dovrebbe assalire chiunque e soprattutto chi svolge incarichi di responsabilità costituiscono le armi essenziali per fronteggiare ogni germe totalitario.

   Il fascismo muore nelle anime laiche che non ignorano la vita giusta, la rettitudine intellettuale, gli ideali di pace. La dittatura, in altri termini, si sconfigge quando si regala un motivo di empatia al nostro vicino, quando un professore sfugge alla burocrazia e osserva le sfumature di ogni volto, quando si offre il «tu» con afflato morale e ci si riconosce membri liberi, eguali e razionali sullo sfondo di uno Stato di diritto.

   L’«io», come si è detto, gode di una libertà perenne, ma la sua libertà è asettica, abita in una insipida trascendenza se non si stupisce nell’ascolto del «tu». Nell’idea di Calogero solo il «tu» può guarirci dalla nostra solitudine, dalle inquietudini, dalla nostra incomprensione e dal pericolo della tirannide.

   Calogero vuole trasformare la libertà «adiafora» del singolo in una perfetta libertà dal respiro etico. La tensione problematica fra il soggetto educatore («io») e l’educando («tu») s’innesca allorché il primo si rende conto che esiste una volontà più importante da salvaguardare, quella dell’altro. La scelta altruistica dell’«io» non indietreggia, al contrario si irrobustisce, diviene più nitida disegnando lo spazio culturale entro cui il nuovo pronome (il «tu») proverà a raccontare se stesso, a narrare la sua biografia, a scegliere finalmente la propria vita senza che un dominus possa violentarne le aspettative.

   Nella sua Scuola dell’uomo, Calogero suggerisce l’importanza del «lui». Non solo l’«io» ma anche il «tu» appena istituzionalizzato ha un dovere da compiere. La vita non si arresta in un giuoco dialettico fra due protagonisti, due entità, due culture, in quanto occorre focalizzare l’attenzione sulla terza voce.

   Il dialogo, dirà in un saggio del ’62, rappresenta l’unica verità ineccepibile, mentre ogni logos deve essere sottoposto a revisione. La «capacità di intendere» è la spinta del divenire, la terapia contro quel Dasein gettato nel mondo senza un perché. Non basta legittimare il «tu», il tuo vicino di casa, la tua compagnia, il tuo Paese. Bisogna guardare oltre, lanciare uno sguardo solido nelle terre del nessuno e scoprire la «terza persona».

   Nel primo Manifesto del liberalsocialismo redatto da Calogero e pubblicato nel ’40, vengono ripresi questi strumenti concettuali. Una buona politica si fonda per l’appunto sull’«eterno riferimento alla terza persona». Il liberalsocialismo è la fervida opportunità di avviare un’opera di riconoscimento a beneficio del «tu» e del «lui».

   Calogero sfida storicamente il liberalismo crociano e il materialismo dialettico. In Difesa del liberalsocialismo del 1945, scrive ad esempio che Croce enfatizza colpevolmente il valore della libertà a scapito della giustizia, mentre i discepoli di Marx fanno l’esatto contrario. La sua cultura liberale, vicina al laburismo inglese, sente la questione sociale a differenza dei liberali puri alla Kenneth Minogue, ma ripudia l’egualitarismo fazioso. Il suo liberalsocialismo non andrebbe identificato con il liberalismo sociale di Guido de Ruggiero e neppure con il socialismo liberale di Carlo Rosselli. Si tratta di una visione politica che intende rimuovere la categoria dei sotto-individui, abbracciando in un unico rapporto dialettico la libertà liberale e quella materiale.

    L’impulso religioso che accompagna l’ideologia politica di Capitini viene accolto con riserve. Calogero riconosce un indubbio valore nell’azione nonviolenta. Anzi, si spinge a tal punto da condividere la scelta di chi non difende se stesso in nome di un alto principio, ma condanna colui che non fa nulla per proteggere la propria moglie, il proprio figlio, il proprio padre, il proprio amico o un estraneo indifeso (il «lui»), qualora le circostanze lo dovessero richiedere. Se il primo nonviolento è un «eroe», il secondo è un «vigliacco».

   Egli fonda nel ‘42 il Partito d’Azione insieme ad altre figure autorevoli quali Piero Calamandrei, Ugo La Malfa, Tommaso Fiore, Norberto Bobbio e Adolfo Omodeo. L’intenzione è anzitutto quella di coltivare una terza via tra il liberalismo conservatore e il comunismo ortodosso, ma questo soggetto politico si spegnerà cinque anni più tardi.

   Calogero difenderà fino alla fine la sua filosofia dialogica e riprende in modo critico la concezione democratica di John Dewey, di cui nel 1959 traduce l’opera A commun Faith. In Le regole della democrazia e le ragioni del socialismo del ’68, insiste sul valore universale e «comunicativo» della democrazia, sull’impegno morale in favore della giustizia e sull’identità fra liberalismo e socialismo.

   Il suo è un liberalsocialismo del «tu», del «lui» e mai di se stesso. Il «tu», una volta riconosciuto, deve proseguire l’opera infaticabile del primo «io». L’«io» e il «tu», quindi, non esauriscono il linguaggio etico perché c’è sempre un altro pronome non identificato che rivendica con timidezza la qualifica del sui iuris.

   Sono innumerevoli i «lui» sparsi nel Pianeta. Gli sfruttati di ogni colore chiedono tutela e vogliono il «tu», ma il nostro «io» si addormenta nella contingenza e insegue la retorica delle consuetudini, per dirla con Carlo Michelstaedter. Il «tu» è facile individuarlo oggi, dato che spesso è figlio di un meccanismo opportunistico, di un vizio di mercato, di un atto oneroso. Il riconoscimento del nuovo «tu», lungi dall’alleviare il dolore sociale, è oramai dettato da un circolo perverso che ferisce la purezza e il dono del gratuito. Il Gott ist tot e l’esaltazione capitalistica dell’esistenza tradiscono la speranza progressista della scuola dell’uomo e rinviano l’appuntamento con la «terza persona».

 

Micromega, 28 dicembre 2016

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