Cosa ci insegna il no

06 Dic 2016

Nei commenti immediatamente successivi allo straordinario, e inatteso, risultato del referendum del 4 dicembre, dominano argomenti legati al fallimento di Renzi e alle incognite relative a chi lo sostituirà. Lui stesso – dopo aver ammesso di avere perso, ma non di avere sbagliato – propone una lettura ancora una volta personale della consultazione: “non sapevo che mi odiassero tanto”. Come dire: il voto è stato pro o contro la politica di Renzi. (Il narcisismo impera, anche nella sconfitta.)

 Posto che naturalmente nel voto del 4 dicembre sono confluite motivazioni e spinte eterogenee e complesse, tutte da analizzare, a me sembra  che queste reazioni, troppo semplicistiche,  rischino di oscurare quanto di specifico e di positivo per il futuro si può leggere nel risultato che ha rigettato la “riforma” costituzionale voluta dal governo.

Anzitutto, non va trascurato il fatto che questo rigetto popolare replica quello verificatosi  nel 2006 nei confronti della “riforma” costituzionale voluta da Berlusconi: anche allora un capo di governo affidò ad alcuni esponenti della sua maggioranza  – i “saggi di Lorenzago“ – la redazione di modifiche pasticciate e pericolose della Carta e anche allora il referendum le bocciò nettamente. E allora, dalla duplice esperienza si deve  trarre un conforto: che gli italiani, anche i più giovani, non sono disponibili ad accettare manomissioni della Costituzione portate avanti a colpi di maggioranza, motivate a colpi di slogan e affidate ad improvvisati “costituenti”. Questo indica chiaramente che il valore della Costituzione come pilastro identitario della nostra Repubblica è entrato nella cultura condivisa, e che  – pur riconoscendo in principio la possibilità di modifiche alla Carta – i cittadini applicano una sana diffidenza nei confronti del “come” queste modifiche vengono proposte.

In secondo luogo, il risultato del 4 dicembre convoglia  anche, mi pare, il rifiuto da parte dell’elettorato delle modalità di comunicazione che hanno caratterizzato la propaganda governativa a favore della “riforma”: una per tutte, la contrapposizione cambiamento- conservazione. L’obiettivo era ovviamente attrarre i giovani, e a quanto risulta dalle prime analisi del voto non ha funzionato, dato che ben il 70 per cento degli under 35 ha votato no. Ma lo stratagemma era vieto: Berlusconi lo usò già oltre trent’anni fa. E si è visto con quali esiti per il paese. Ugualmente sgradevole, da un lato,  il tentativo di spaventare gli elettori minacciando fallimenti e, dall’altro, di adescarli con promesse di quattrini. Davvero terrificante, a quest’ultimo proposito, l’arringa di De Luca agli amministratori locali della Campania, e consolante che i campani – certamente risentiti per l’offensiva immagine  che ne discendeva – abbiano in massa respinto la “frittura di pesce” del loro immeritevole presidente.

Ma dai discorsi dei più giovani mi è parso di cogliere un altro fondamentale messaggio: la richiesta che il governo faccia bene il suo mestiere, affronti i gravi problemi del paese con strumenti e competenze adeguati, anziché dedicare tanto tempo e risorse a riscrivere – male – le regole. Insomma: se l’Italia ha una percentuale abnorme di disoccupazione giovanile, la colpa non è della Costituzione! Né è colpa della Costituzione, o del processo legislativo, se alcune banche italiane sono state tanto mal gestite e mal vigilate. Tantomeno c’entra la Costituzione se la criminalità organizzata e la corruzione dilagano e ci pongono ai margini del mondo civile. Questi sono i problemi che i cittadini chiedono siano al centro dell’agire del governo e del Parlamento,  su questi giudicheranno l’esistenza reale del “cambiamento”.

(*) Elisabetta Rubini è nel Consiglio di Presidenza di Libertà e Giustizia

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