Messina/La Costituzione come possibile strumento di potere

02 Dic 2016

L’intervento svolto dal professor Tomaso Montanari durante il dibattito organizzato dal Circolo LeG di Messina, per discutere sul tema: “Sovrani non sudditi: il progetto della Costituzione, la cultura e le ragioni del No”, ha rappresentato l’ideale prosecuzione e, al tempo stesso, il completamento di un percorso di conoscenza della riforma costituzionale, che ha avuto inizio il 15 settembre 2016 con l’incontro tenutosi con il Prof. Francesco Pallante.

 

Se lo stimato docente di Diritto Costituzionale dell’Università degli Studi di Torino ha trattato i profili squisitamente giuridici e tecnici della riforma, evidenziando, in particolare, il radicale stravolgimento che potrebbe subire il nostro sistema istituzionale, il Prof. Montanari, invece, ha sviluppato una serie di considerazioni centrate sulla valutazione delle prospettive di tipo sostanziale che l’eventuale entrata in vigore delle nuove disposizioni costituzionali porterà nel rapporto tra la gestione e l’esercizio del potere politico, da un lato, e gli spazi di sovranità, dall’altro.

 

Il docente fiorentino ha manifestato la propria netta contrarietà alle modificazioni introdotte dalla Renzi/Boschi; e questa posizione di chiusura, assolutamente condivisibile, è dettata dalla immediata intellegibilità di uno dei principali obiettivi perseguiti dai fautori di questa ingiustificata revisione: ridurre il potere di controllo democratico indiretto dei cittadini sull’azione dell’esecutivo che – grazie alla combinazione tra revisione costituzionale e nuova legge elettorale – potrà agire, in futuro, senza particolari vincoli o impedimenti di carattere politico e sotto la protezione di una assoggettata maggioranza parlamentare.

 

Si andrà, dunque, a realizzare una limitazione ”dell’eccesso di democrazia” oggi esistente, che costituisce nelle intenzioni dei riformatori, quel passaggio necessario per poter finalmente giungere al tanto auspicato riconoscimento della sovranità del mercato.

 

I timori per gli effetti negativi derivanti da questa revisione costituzionale sono stati di immediata percezione anche grazie alle considerazioni esposte dal Prof. Montanari sui possibili effetti che le recenti modifiche al Titolo V della Costituzione potrebbero produrre nella relazione trilaterale Stato-Regioni-cittadino, argomento rispetto al quale l’analisi del vicepresidente di Libertà e Giustizia è stata particolarmente critica.

 

Nello specifico, si è fatto riferimento al nuovo art. 117 il quale, riconducendo nell’ambito della competenza legislativa esclusiva dello Stato la disciplina in materia di governo del territorio e dell’ambiente (produzione, trasporto e distribuzione nazionali dell’energia, infrastrutture strategiche e grandi reti di trasporto e di navigazione di interesse nazionale e relative norme di sicurezza, porti e aeroporti civili, di interesse nazionale e internazionale), andrà a depotenziare la potestà legislativa delle Regioni su materie che per loro natura hanno una incidenza diretta su interessi primari e di carattere non patrimoniale delle comunità locali; proprio queste ultime, ove dette modifiche dovessero avere seguito, vedranno considerevolmente sacrificato il loro di diritto di partecipare e di poter intervenire tramite i propri rappresentanti nel processo decisionale che, di conseguenza, potrebbe svolgersi prescindendo da una attenta e effettiva valutazione dei benefici/costi per la collettività.

 

In tal senso, nelle pluralità di censure che sono state mosse nei confronti di questa revisione, che è stata definita e qualificata da illustri costituzionalisti, come un complesso normativo dal contenuto disomogeneo, privo di qualsiasi sistematicità e carente sotto il profilo della formulazione legislativa, l’unico elemento rispetto al quale non si può muovere alcuna obiezione, è dato dalla presenza di un nucleo di disposizioni – che sin dalle prime letture – è apparso teleologicamente orientato verso la centralizzazione del potere decisionale, sia sul piano verticale nel rapporto tra Stato e Regioni – altrimenti non si comprenderebbe la richiamata sottrazione di importanti competenze alle Regioni- sia sul piano orizzontale, mediante un spostamento dell’equilibrio esistente nel rapporto tra il potere esecutivo e quello legislativo, che trova attuazione nella nuova natura del Senato e nel sostanziale svuotamento, seppur indiretto, delle funzioni del Parlamento.

 

Un importante elemento di preoccupazione si rinviene nel fatto che dietro alle presunte necessità di accorciare i tempi di durata del procedimento legislativo, di offrire una immediata risposta alle istanze provenienti dai mercati e dagli organi sovranazionali, di contenere lo spread e tagliare i costi della politica, vi è solo l’idea di dare finalmente attuazione ad una visione aziendalistica dello Stato, secondo una concezione che è prossima alla nozione di impresa, trasformazione che potrebbe trovare il suo atto finale nel completamento di quel processo che si sta cercando di imporre da più di due lustri e che potrebbe tradursi in una privatizzazione dei metodi di governo della collettività.

 

Nel caso in cui tale cambiamento dovesse concretizzarsi – e la riforma costituzionale si muove proprio in questa direzione – non appare erroneo ritenere che, con ogni probabilità, il sistema diverrà ancor più permeabile alle pressioni provenienti dai gruppi economici ed agli interessi particolaristici di specifici centri di potere; il realizzarsi di tale condizione sarà ulteriormente agevolato dall’applicazione (in parte già in corso) all’amministrazione e cura della cosa pubblica, di parametri e modelli utilizzati nella gestione delle società con fini di lucro.

 

Le considerazioni appena esposte tramite le quali si è inteso mostrare la fragilità della riforma costituzionale, inducono a svolgere una ulteriore riflessione. Partendo da una analisi di tipo storico, è certamente indiscutibile il dato secondo il quale negli ultimi decenni della vita politica italiana sono stati innumerevoli i casi in cui la legge ordinaria è divenuta strumento per soddisfare interessi di pochi e non della collettività, come è certo che le politiche di sviluppo e di crescita del nostro Paese sono state in parte condizionate dall’adozione di misure volte alla salvaguardia di selezionati ed influenti gruppi economici.

 

A tal proposito, è utile ricordare la giusta denuncia del Prof. Montanari, il quale, in più occasioni, ha sottolineato come già da diverso tempo l’interesse dei privati si sia esteso anche alla gestione del nostro patrimonio culturale, non più visto da chi governa come bene primario di istruzione e formazione dei cittadini e come mezzo di conoscenza, ma come mero strumento produttivo di guadagni da parte di società di servizi e fondazioni.

 

Ma è altrettanto vero che, proprio grazie alle robuste garanzie contenute nella nostra Carta, sino ad oggi è stato possibile contenere questo deprecabile uso privatistico della funzione normativa, assolutamente contrario a quei principi fondanti l’etica della politica e determinato non dal cattivo funzionamento del sistema ma, in via esclusiva, dal quasi inesistente spessore morale e qualitativo della nostra classe politica.

 

Ed in un contesto in cui l’azione politica risulta con una certa frequenza indirizzata verso il soddisfacimento di esigenze non riconducibili alla generalità dei consociati, il legislatore avrebbe dovuto concentrare la propria attenzione verso un ampliamento e rafforzamento delle forme di controllo e di partecipazione democratica.

 

Tale necessità, invece, non solo non è stata avvertita ma, al contrario, attraverso un atto che sotto il profilo sostanziale non è di natura parlamentare, ma espressione della politica governativa, si è preferito e deciso di praticare, in nome della tanto agognata governabilità, una incisione profonda sul tessuto della nostra Costituzione assolutamente non necessaria, che, secondo l’opinione di numerosi studiosi del diritto, potrebbe condurre ad un forte indebolimento delle garanzie costituzionali e della sovranità dei cittadini.

 

Nel caso in cui la riforma dovesse superare lo sbarramento del referendum oppositivo, le maggiori preoccupazioni non nascono soltanto da quelli che potrebbero essere nel medio e lungo periodo i riflessi pratici sul nostro sistema istituzionale e sulle garanzie da esso previste, ma sono legate anche alla possibile affermazione di una nuova idea e/o concezione di Costituzione.

 

Difatti, pur conservando una posizione di preminenza giuridica nella scala gerarchica delle fonti del diritto, la nostra Carta fondamentale potrebbe non essere più intesa secondo il suo significato ideologico e politico originario, ossia come “Legge Superiore” o come “Patto Nazionale”, tendenzialmente destinato a durare nel tempo ed in cui sono stati cristallizzati i

valori fondamentali che costituiscono la base del nostro ordinamento, ma potrà sostanzialmente assumere le vesti e gli elementi propri di una legge programmatica e di organizzazione, diretta manifestazione di scelte di parte operate dalla forza politica che detiene la maggioranza parlamentare.

 

In altri termini, vi è il concreto rischio di alterarne definitivamente natura e funzione e di fare della Costituzione un ulteriore strumento di potere potenzialmente utilizzabile da chi governa in un dato momento, per modificare, a proprio piacimento, le regole del gioco politico e per imporre decisioni e principi anche a coloro i quali sono portatori di idee politiche e valori differenti.

 

 

(*) Avvocato di Messina. 

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