Perché il Sì di Romano Prodi è molto triste

01 Dic 2016

Tomaso Montanari

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Veniamo al nocciolo della questione. Se vince il Sì il governo (qualunque governo) sarà più forte, e i cittadini conteranno di meno. La riforma punta tutto sulla diminuzione della partecipazione, e sulla autoreferenzialità della classe politica. Come ha scritto don Ciotti, chi ha voluto questa “nuova” Costituzione vede “la democrazia come un ostacolo“, e il bene comune come “una faccenda in cui il popolo non deve immischiarsi”.

Come siamo arrivati a questo? La risposta è tutta racchiusa in una singola parola: diseguaglianza. Secondo il rapporto annuale Istat del 2016, l’Italia è il paese in cui – tra 1990 e 2010 – la diseguaglianza sociale è aumentata di più. In assoluto: “tra tutti i paesi per i quali sono disponibili i dati”. È quello che succede in tutto l’Occidente: pochi ricchi sono sempre più ricchi, mentre si allarga la fascia degli impoveriti e la classe media non arriva agevolmente alla fine del mese. Come ha scritto il premio nobel per l’economia Joseph Stiglitz, “la stragrande maggioranza sta soffrendo insieme, mentre i pochi in cima alla scala sociale – l’1% – stanno vivendo una vita diversa”.

Ma quando la diseguaglianza arriva a questi livelli, l’establishment ha un problema: la democrazia. Perché in democrazia il voto di un ricco vale quanto quello di un povero. “È diventato un luogo comune dire che vogliamo tutti la stessa cosa e abbiamo solo modi leggermente diversi per giungere a essa. Ma è semplicemente falso. I ricchi non vogliono le stesse cose che vogliono i poveri. Chi dipende dal posto di lavoro per la propria sussistenza non vuole le stesse cose di chi vive di investimenti e dividendi, chi non ha bisogno di servizi pubblici (perché può comprare trasporti, istruzione protezione sul mercato privato) non cerca le stesse cose di chi dipende esclusivamente dal settore pubblico” (Tony Judt, Guasto è il mondo, 2010).

E se i poveri votano tutti insieme, il sistema può essere rovesciato. Fino a un certo punto la soluzione è a portata di mano: incoraggiare l’astensione di massa. Non per caso il messaggio (dalla Thatcher a Blair, a Renzi) è: “non c’è alternativa”. Tradotto: “non votate, tanto è inutile”. Ma, da un certo punto in poi, l’astensione non basta: per tenere il conflitto sociale fuori dai luoghi in cui si decide bisogna separare questi luoghi (il parlamento e il governo) dal suffragio popolare, dai cittadini.

È per questo che non voteremmo più il Senato e i governi delle provincie, che le leggi di iniziativa popolare sarebbero in balìa della maggioranza parlamentare, che le regioni verrebbero espropriate di ogni potere reale. In breve, se la diseguaglianza è tale da rendere “pericolosa” la democrazia ci sono due soluzioni: diminuire la diseguaglianza, o diminuire la democrazia. Il governo Renzi ha scelto quest’ultima strada. Non è vero che questa scelta non cambia la prima parte della Costituzione: anzi, ne sovverte il più fondamentale dei principi fondamentali, l’articolo 3. Dove è scritto che “è compito della repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Il progetto della Costituzione è ridurre la diseguaglianza per consentire la partecipazione: il progetto di questa riforma è ridurre la partecipazione per consentire il perdurare della diseguaglianza.

È per questo che Confindustria, Marchionne, JP Morgan, l’establishment tedesco e in generale il mercato votano Sì. Mentre la Fiom e tutta la Cgil, Libera, l’Arci, l’Anpi e infinite associazioni di cittadini votano No.
Le poche riserve del mondo della finanza (per esempio quelle dell’Economist) non vengono certo da un disaccordo politico, ma dal dubbio (fondato) che le riforme siano così mal congegnate che rischiano di dare un potere blindato nelle mani non dell’establishment, ma di un suo nemico (Grillo).

Ed è così: votare Sì è insieme conservatore e avventurista. Conservatore perché punta su una riduzione della democrazia per conservare la diseguaglianza. Avventurista perché scommette su un abito cucito su misura per un giocatore solo, non contemplando ipotesi subordinate.

Votare No, invece, vuol dire aver compreso che così non si può andare avanti. Che se restringiamo ancora la democrazia, invece di ridurre la diseguaglianza, lo schianto sarà ancora più forte. Vuol dire tenere aperto il campo da gioco del Parlamento, come luogo in cui far arrivare tutto intero il conflitto sociale. Come luogo da cui far partire un cambiamento vero. Cioè radicale.

Per questo il Sì di Romano Prodi è molto triste. Ma non perché ci sia dietro chissà quale calcolo personale. Ma perché Prodi non capisce che ciò che davvero gli sta a cuore, ciò a cui ha dedicato la vita (l’Europa) viene condannato definitivamente a morte dal mantenimento dello stato delle cose.

Una vera classe dirigente dovrebbe capire – per non fare che un solo esempio – che se vogliamo evitare lo schianto, gli Stati devono ricominciare a esercitare la sovranità. La libera circolazione delle merci non può continuare a essere l’unico dogma che regge il mondo: se la Cina continuerà a inondare il mondo di prodotti a costo zero (perché frutto di schiavitù di massa) l’Africa non avrà alcuna possibilità di sviluppo, con conseguenze drammatiche sulle migrazioni.

Se le sfide sono di questa portata – ed è difficile negarlo – uno statista dovrebbe utilizzare la spinta dal basso per cambiare effettivamente lo stato delle cose: non puntare tutto sul tentativo di neutralizzare quella spinta. E invece i padri dell’Unione Europea come Prodi preferiscono mettere la testa sotto il cuscino, in un riflesso che è spiegabile solo con la rassegnazione e l’impotenza. Ma questa scelta finirà proprio col distruggere ciò che vorrebbero salvare. Perché il Sì è come un’aspirina per uno che ha bisogno di un trapianto: il No vuol dire mettersi in lista per l’operazione. Il Sì è come mettere il dito nel buco della diga: il No vuol dire avviarsi a svuotare il bacino che sta per tracimare.

Dire che la “casta” vota Sì non significa fare polemica demagogica contro i privilegi delle élite. Significa prendere atto che vota Sì chi pensa che, tutto sommato, le cose non possano che andare così. E oggi lo pensa solo chi ha qualche forma di garanzia. Chi ha qualcosa da difendere. Diciamolo in modo brutalmente chiaro: i benestanti. E soprattutto i benestanti anziani, che preferiscono non chiedersi come faranno i loro figli e i loro nipoti a tenere insieme diseguaglianza e democrazia. Che pensano che non ci saranno più quando tutto questo salterà in aria.

Io voterò No perché sono cristiano. Voto no perché sono di sinistra. Penso che il mondo è guasto: e bisogna por mano a ripararlo. Tra ridurre la diseguaglianza e ridurre la democrazia, scelgo la prima. Con questa riforma della Costituzione hanno spaccato il Paese, e ci hanno chiesto di decidere con chi vogliamo stare: allora io voglio stare con i miei. Perché “reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri i miei stranieri” (Don Lorenzo Milani).

Huffingtonpost.it , 01 Dicembre 2016

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