TINA ANSELMI, QUELL’AMICA SEVERA CON IL VANGELO LAICO DELLA COSTITUZIONE

04 Nov 2016

Sandra Bonsanti Presidente emerita Libertà e Giustizia

La prima volta che intervistai Tina Anselmi era stata da poco nominata ministro del Lavoro e della previdenza sociale nel terzo governo Andreotti. Eravamo sedute una difronte all’altra in una sala grigia e anonima del ministero.

Parlammo soprattutto del suo nuovo impegno e dell’ importanza che fosse una donna a ricoprirlo.

Ci conoscemmo così, era il 1976, in maniera semplice e spoglia, così come sono spesso le interviste giornalistiche a persone che non si erano mai incontrate prima. A me fece una grande impressione, quella democristiana semplice e sorridente, pulita e ferma, che non sfuggiva alle domande, semmai accompagnava le risposte con l’espressione sorpresa, divertita, che era un tratto della sua fisionomia. L’ultima intervista invece avvenne nel 1996, per una piccola pubblicazione che usciva nelle edizioni del gruppo Abele di don Luigi Ciotti.

Vent’anni erano passati dal nostro primo incontro e io la consideravo una amica preziosa, e so che lei mi voleva bene.

Mi raccontò di quella volta che Craxi, presidente del Consiglio, la convocò a Palazzo Chigi. «Mi lesse un documento che però non mi dette nemmeno in mano sul quale c’era, spiegò, il segreto di Stato. Si trattava vagamente dell’archivio uruguayano di Gelli… non so se a Palazzo Chigi ci sia ancora del materiale sulla P2 coperto da segreto di Stato. Sono preoccupata che sulla vita politica italiana esista un’area di reciproco ricatto, nella quale i piduisti scoperti ricattano gli altri, oppure si alleano tra loro».

Era ancora la stessa donna intelligente e serena che avevo conosciuto tanti anni prima, ma la sua serenità era quella di chi sa di aver fatto il proprio dovere, di con aver nulla da rimproverarsi. Ma teme anche che lo scontro sia stato da sempre impari , che il male che affligge la nostra democrazia non sia stato eliminato. Che, forse, sarebbe stato impossibile scoprirlo del tutto, nessuno ce l’avrebbe fatta.

Tina Anselmi se ne è andata con questo sentimento di preoccupazione per la sua Italia.

Per quella Costituzione che è sempre stata il suo vangelo laico. «Questo è incostituzionale, non si può fare, nessuno lo può fare», diceva ai vari personaggi, politici o militari o alti magistrati che interrogava durante gli anni della Commissione P2. E lo diceva con una piega di severità nel volto, che l’interlocutore si sentiva subito colpevole, arrossiva, balbettava. Lei lo aveva colto in fallo e lo stava additando alla storia.

E’ stata un’ amica severa.
Quando Eugenio Scalfari mi incaricò di seguire la commissione sulla P2, senza saperlo mi affidò un compito che segnò nel profondo anche la mia vita. Il problema di quella Loggia segreta, di quegli affiliati che improvvisamente comparivano nelle inchieste più tragiche sull’eversione, o negli scandali politico-finanziari, nelle trame sulle quali i grandi pensatori del secolo ventesimo come Norberto Bobbio cercavano di individuare il segreto sfuggente, l’obiettivo finale… quel problema e il continuo riaffiorare di situazioni e personaggi ha pesato anche sulla vita personale della cronista.

Ricordo il giorno in cui alla fine di uno dei nostri incontri nel suo studio di Castelfranco le avevo fatto una domanda che non avevo pensato prima, mi era venuta spontanea e dunque le dissi: «Lei sa se Licio Gelli nella sua latitanza stia seguendo i lavori della commissione, sia informato?». Mi rispose senza sorridere: «Penso proprio di sì. Anzi, da alcuni segnali devo dire che ci segue con una tempestività e una precisione veramente inaudite». Chi informava Gelli su quello che la Anselmi faceva e scopriva? Oggi, non allora, sappiamo di commissari che appartenevano anche ad altre reti dei servizi segreti deviati, ed erano fra i più solerti ad avere rapporti con i giornalisti e a offrire indiscrezioni sulle carte ritenute riservate.

Questo per dire che tutto il tempo di Tina alla commissione P2, fino ai giorni del dibattito e del voto parlamentare che segnò a grandissima maggioranza la condanna politica della loggia di Gelli, fu per la deputata di Castelfranco, la ragazza della Resistenza, un tempo di pericolo molto serio. E fu il tempo del suo coraggio e della gente che la incontrava e la incoraggiava a fare pulizia. Spesso si fermava per strada. Era la fine di una giornata faticosa, e molti erano stati i servitori infedeli che aveva interrogato.
Agli incoraggiamenti rispondeva: «Grazie, ho tanto bisogno del vostro sostegno».

Poi mi prendeva sottobraccio e diceva: «Ma ti pare che non sia reato che quattro generali dei carabinieri, partiti da sedi diverse, si trovino contemporaneamente nella villa di Gelli per prendere chissà quali decisioni…». Taceva un attimo e poi: «Non sarà reato, ma la Costituzione certo non lo prevede. E poi allora quale sarebbe lo spazio di libertà che ci siamo conquistati con la lotta al nazifascismo e che altri poteri, i poteri occulti, consentono alla nostra democrazia?».

Con quelle domande, con quei dubbi, ci siamo separate molte sere. Con essi abbiamo convissuto entrambe, il ministro, l’onorevole venuta da Castelfranco, e la cronista che andava a scrivere al suo giornale un altro articolo sulla loggia di Licio Gelli.

 

La Tribuna di Treviso,  venerdì 4 novembre 2016

Nata a Pisa nel 1937, sposata, ha tre figlie. Si è laureata in etruscologia a Firenze e ha vissuto per molti anni a New York. Ha cominciato la sua attività professionale nel 1969 al “Mondo” con Arrigo Benedetti.

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