Perché votare NO alla riforma costituzionale Renzi-Boschi anche indipendentemente da modifiche (ormai improbabili) all’Italicum

24 Ott 2016

Va premesso che chi ha redatto il presente documento non è contrario ad ogni riforma costituzionale, ma ritiene che una riforma costituzionale meriti approvazione solo se non si limita a rispettare la lettera dell’art. 138 sulla “revisione della costituzione” ma sia conforme allo spirito dell’intera Carta costituzionale del 1948. Dichiarare che questa conformità è mantenuta perché la prima parte di quella Carta, che ne definisce i principi, non è stata toccata, è una falsità, perché ovviamente la seconda parte, sull’”ordinamento della Repubblica”, discende dalla parte sui principi. La riforma costituzionale Renzi-Boschi concerne l’assetto statale complessivo, perché limita notevolmente le autonomie locali e regionali, invece di perseguire l’obbiettivo originario di un rapporto equilibrato fra queste autonomie e il potere dello Stato centrale. Anche al di là della sua connessione piuttosto stretta con la legge elettorale denominata Italicum essa sancisce in un modo forse definitivo la crisi di un sistema che voleva essere prima di tutto parlamentare. La riforma non fa nulla per dare spazio all’iniziativa dei cittadini nel costituirsi in quei corpi intermedi come partiti e sindacati che sono anch’essi manifestamente in crisi e nel regolare la vita democratica al loro interno; non fa nulla per limitare il peso crescente che ha il potere economico e finanziario rispetto a quello politico; tanto meno si cura dell’attuazione di quei principi della carta del 1948 che continuano ad essere poco effettivi. Infine la nostra Carta fondamentale dovrebbe essere un documento nel quale tutti possano riconoscersi, mentre è manifesto che la riforma sottoposta a referendum è divisiva: il Si o il No prevarranno di poco, e se prevarrà il Si i contrari alla riforma tenderanno a non più riconoscersi nella Carta modificata, se prevarrà il No i favorevoli alla riforma tenderanno a considerare la Carta non modificata come un documento invecchiato e pertanto non meritevole di rispetto.

La prima riserva concerne dunque il metodo: una riforma costituzionale che abbia il massimo consenso deve essere fatta coinvolgendo per quanto è possibile tutte le forze politiche (non semplicemente Berlusconi e i suoi) e tutte le associazioni (come Libertà e Giustizia) che hanno interesse ad una buona riforma, e dando ascolto ai costituzionalisti più reputati – i quali invece per la maggior parte hanno aderito ad un documento di critica della riforma costituzionale – e ad altre persone che sono intervenute con loro proposte. Com’è stato giustamente rilevato nel documento ora citato, “la Costituzione, e così la sua riforma, sono e debbono essere patrimonio comune il più possibile condiviso, non espressione di un indirizzo di governo e risultato del prevalere contingente di alcune forze politiche su altre.” Non solo non si è proceduto nel modo suddetto, ma è evidente (nonostante quanto sostengono certi suoi fautori come l’ex-presidente Napolitano) che la riforma non discende da un’iniziativa autonoma del Parlamento ma è di iniziativa governativa. La conseguenza di questo modo di procedere così partigiano è che il referendum ha inevitabilmente conseguenze sulla sorte del governo,

Una seconda riserva concerne la scrittura degli articoli facenti parte della riforma: alcuni di essi (come l’art. 70) sono un esempio di scrittura per lo meno laboriosa, fra l’altro con rimandi ad altri articoli e commi. Non si è compreso che la Carta costituzionale ha funzione di indirizzo, mentre i punti più o meno dettagliati di procedura effettiva vanno stabiliti con legge ordinaria. E’ in gioco anche la qualità della nostra legislazione: almeno le principali leggi della Repubblica, a cominciare ovviamente dalla Costituzione, dovrebbero essere scritte in modo da essere comprensibili a tutti i cittadini, mentre vari osservatori notano un continuo peggioramento di quella qualità. Quanto sta avvenendo è che i parlamentari rinunciano in modo crescente alla loro funzione di legislatori, affidando questo compito al governo, il quale a sua volta si avvale di funzionari, sicché la legislazione è in mano alla burocrazia che si rivolge a se stessa e non ai cittadini. Renzi, prima di diventare premier, predicava la semplificazione, poi si è zittito sul tema. (Non è l’unico e il primo a parlare di semplificazione: memorabile fu il falò di leggi inutili di Calderoli, che, se non fosse stato una burla carnevalesca, ci avrebbe in effetti lasciato del tutto senza leggi.) Semplificare non è … semplice: richiede idee chiare sugli intenti di una legge in rapporto anche alle altre leggi vigenti, guardando dunque alla coerenza dei testi rispetto a tali intenti. Una funzione che avrebbe potuto essere esercitata da un Senato riformato è appunto di occuparsi della revisione, non semplicemente delle leggi appena approvate dalla Camera, ma di tutte le leggi vigenti, in modo da assicurarne l’uniformità od omogeneità e la comprensibilità, ovviamente riducendo sostanzialmente il loro numero (ogni nuova legge si aggiunge alle vecchie, con una crescita mostruosa del corpus legislativo che non ha paralleli in altri paesi europei). I conflitti piuttosto frequenti che ci sono fra Stato e Regioni dipendono in larga misura dal fatto che anche queste legiferano senza curarsi di eventuali incompatibilità con le leggi nazionali, sicché pure in questo campo si impone una revisione. Una divisione chiara delle competenze fra Stato e Regioni tramite riforma costituzionale è certamente opportuna, ma risolve solo in parte i problemi. Quanto al famoso ping-pong fra Camera dei deputati e Senato deplorato da Renzi, esso è comunque evitabile con qualche riforma molto semplice (per esempio affidando l’armonizzazione delle leggi come approvate dalle differenti camere ad una commissione mista).

Una terza riserva concerne l’impostazione complessiva della riforma: si tratta di una riforma scombinata. Il nuovo Senato viene detto essere delle autonomie territoriali per come è composto: lo è, in certa  misura, sul modello tedesco, ma quella tedesca è una Repubblica federale (Deutsche Bundes-Republik), cioè il nuovo Senato dovrebbe rappresentare un passo verso il federalismo. Invece la revisione del titolo V va in senso contrario, verso un rafforzamento del centralismo, a scapito di ogni autonomia. A peggiorare le cose viene mantenuta l’autonomia delle regioni a statuto speciale, il cui riconoscimento nell’immediato dopoguerra aveva delle ragioni storiche che, almeno in gran parte (forse con la sola eccezione dell’Alto Adige), sono venute meno, con evidente sperequazione fra le regioni che perdono di autonomia e quelle che la mantengono in pieno. Non si può dire, per fare un esempio, che la regione Sicilia sia stata così bene amministrata da meritarsi questo trattamento speciale. Sono dunque fusi insieme tre sistemi politici di orientamento contrastante: un Senato che rappresenta autonomie quasi inesistenti; centralismo a scapito delle autonomie; autonomie che sussistono per alcune regioni.

A complicare ulteriormente le cose il terzo comma, modificato, dell’art. 116 prevede che, con apposita legge (approvata da entrambe le Camere), ad una certa regione che lo richiede sia concessa una certa maggiore autonomia (rispetto alle altre), purché “sia in condizione di equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio”. Ma realizzare tale equilibrio non dovrebbe essere una libera facoltà per singole regioni che viene premiata concedendole maggiore autonomia ma dovrebbe essere un obbligo per tutte le regioni – un obbligo che in effetti è sancito dall’art. 119 ma che, come si sa, è poco rispettato. (Questo comma, salvo l’indicazione di tale condizione, è una sorta di retaggio della riforma del 2001.)

La rappresentatività di un Senato non ottenuto per elezione diretta è ovviamente contestabile; anche la sua composizione poco omogenea (tre categorie diverse: senatori nominati dal Presidente della Repubblica “per altissimi meriti” – cosa ci stanno a fare in un senato delle autonomie? – , consiglieri regionali e sindaci) lo è, come lo è il fatto che l’attività del Senato, che pur riguarda questioni impegnative, sia ridotta ad un lavoro part-time per persone che svolgono un’altra attività. E’ stato denunciato da vari osservatori (a cominciare dai citati costituzionalisti) che la divisione di competenze fra le due camere è mal definita, per cui presumibilmente darà luogo a dei conflitti o comunque a complicati procedimenti legislativi. Il famoso risparmio nei costi della politica, oltre a non poter costituire un fine prioritario ma un fine in rapporto alle prestazioni, sarebbe stato meglio realizzato con una riduzione di numero sia dei senatori che dei deputati (nessuno dei difensori della riforma ci ha spiegato perché è indispensabile mantenere a 630 il numero dei deputati). A questo modo si avrebbe un sistema più equilibrato (particolarmente desiderabile quando ci sia da eleggere il presidente della Repubblica), considerato che è ben possibile attribuire al Senato delle competenze utili che la Camera non possiede. Oltre alla competenza già sopra indicata esso potrebbe avere anche la competenza di esercitare una effettiva supervisione sull’attuazione delle leggi: spesso le leggi approvate dal Parlamento, anche perché debbono essere accompagnate da decreti che tardano, rimangono lettera morta o quasi o sono attuate in modo del tutto insoddisfacente, senza che nessuno se ne preoccupi, come se l’unico compito del Parlamento fosse quello di legiferare, legiferare, legiferare … le conseguenze sono lasciate alla provvidenza o al zampino del diavolo. Come già sopra rilevato, ci si dovrebbe preoccupare anche della piena attuazione della Costituzione del 1948. (Per esempio poco viene fatto per attuare l’art. 9, secondo il quale “la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. – Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.”)

Un aspetto del rafforzamento del centralismo sta nell’abolizione delle province. Non è affatto ovvio che una riforma del genere, che sta venendo attuata in modo pasticciato, sia necessaria: le province sussistono per esempio nella vicina Svizzera, come unità amministrative intermedie fra i cantoni e i comuni, sotto il nome di distretti (Bezirke), senza che nessuno si sogni di abolirle. Una misura così drastica è apparsa opportuna, e incontra un largo favore, perché c’è stata una crescita eccessiva nel numero delle province e nel personale addetto, spesso scelto come si sa con criteri clientelari. Si elimina così l’effetto del male e non la sua causa. Del resto le province non sono state abolite del tutto, ma sostituite dalle cosiddette Città metropolitane (a tralasciare caritatevolmente il fatto che le Province di Trento e Bolzano continuano a sussistere) di numero assai più ridotto, con funzioni amministrative proprie, sicché non se ne contesta l’utilità. La situazione è simile nel caso delle regioni, che anch’esse si sono espanse a dismisura nei loro poteri e nel loro personale, perfino stabilendo delle sedi di rappresentanza all’estero. (Oltre a riportare le province al loro numero originale o anche ad un numero più piccolo, si potevano accorpare alcune regioni, che in qualche caso equivalgono ad una o due province.) Alcuni dei poteri ad esse concessi dalla non felice riforma del titolo V della Costituzione del 2001 sono eccessivi, perché è certamente desiderabile che ci sia una legislazione nazionale abbastanza uniforme: è singolare infatti che istituzioni di uno stesso Stato abbiano sistemi elettorali diversi, e non è opportuno che chi svolge attività (per esempio di trasporto) in più regioni debba sottoporsi a normative discrepanti, con perdita di tempo (come minimo) in adempimenti burocratici. Ma probabilmente sarebbe stato opportuno tornare, almeno in parte e con opportuni aggiornamenti, al testo della Costituzione del 1948, che era ben studiato nello stabilire un equilibrio fra potere centrale e poteri regionali. E’ prevalsa invece la solita volontà di nuovismo. Deve poi essere rimarcato che, siccome gli amministratori delle Città metropolitane ex-province e i senatori del Nuovo Senato sono eletti in modo indiretto e non direttamente dai cittadini, alla crescita di centralismo si unisce una riduzione della partecipazione democratica. (Anche se non si tratta di una modifica della Costituzione, c’è da segnalare che questo ritorno al centralismo si manifesta anche nell’attribuzione di nuovi poteri ai prefetti tramite la legge Madia, fra l’altro ponendo alla loro dipendenza le Soprintendenze preposte alla tutela del paesaggio e dei beni culturali.)

Per il resto, la questione non è tanto quella di togliere poteri alle regioni e alle province, come se lo Stato centrale fosse sempre in grado di svolgere al meglio le funzioni finora ad esse affidate, ma di istituire un sistema di controlli volto a scoraggiare abusi. Un tipo di controllo desiderabile concerne le loro finanze: il governo Monti ha introdotto l’innovazione di obbligare le regioni a sottoporre i loro bilanci alla Corte dei Conti; ma questa innovazione diventa veramente significativa solo se i responsabili dei bilanci fuori controllo sono sottoposti a sanzioni, in primo luogo pecuniarie: se un Presidente di regione sa che, se sgarra, ci rimette di tasca propria, voglio vedere se non sta attento alle spese fino al centesimo! Infine non si può fare a meno di notare che, non tramite la riforma costituzionale, ma di fatto (com’è stato denunciato per esempio da Cacciari), i comuni stanno perdendo gran parte dei loro poteri a favore dello Stato centrale. Ciò riguarda in primo luogo i loro bilanci (che ovviamente debbono essere tenuti anch’essi sotto controllo), perché, con l’abolizione della tassa sulla prima casa, una fonte di finanziamento autonomo è stata eliminata. (Che le tasse sulla casa vadano ai comuni è il sistema che prevale in Europa e che ha una sua ratio, anche perché li incentiva nella lotta all’evasione fiscale. L’europeismo di facciata di Renzi non è accompagnato da atti conformi.) Il quadro dunque è chiaro: anche un federalismo molto temperato non ha più spazio.

Una riforma mancata. Renzi cita a merito della sua riforma il non avere toccato i poteri del presidente del Consiglio dei ministri, a differenza della riforma costituzionale voluta dal Governo Berlusconi e che venne bocciata al referendum del 2006. Tuttavia quella riforma, oltre a toccare altri equilibri, aumentava i poteri del premier in maniera eccessiva, fra l’altro mettendo in sua mano il potere di scioglimento della Camera che dà la fiducia al governo. Il potere di sostituzione dei ministri, esercitato con l’accordo del Presidente della Repubblica e motivato di fronte al Parlamento, è sulla linea di quanto avviene in altri paesi pienamente democratici e trova la sua ovvia giustificazione nel garantire una ragionevole efficienza al sistema: i ministri che fanno bene vanno promossi, quelli che fanno male vanno sostituiti. (Per esempio l’art. 64 della Costituzione tedesca prevede espressamente che i ministri siano designati e destituiti [entlassen] dal Presidente della Repubblica su proposta del Cancelliere.) Il motivo reale per il quale Renzi ha rinunciato a questa riforma non è tanto quello dichiarato di voler evitare la critica di attribuire un eccessivo potere a se stesso come premier – questo potere non è eccessivo – quanto quello che essa gli è apparsa inutile. Inutile dal suo punto di vista, perché della situazione in cui si troveranno coloro che gli succederanno non si cura.

Una ragione di questa inutilità è quella sulla quale si sono appuntate le critiche di coloro che si dicono contrari a questa riforma se non viene cambiata la legge elettorale: la coincidenza della figura del premier con quella del segretario di un partito che, se vincesse le elezioni, otterrebbe la maggioranza assoluta alla Camera, ha l’effetto, dato il suo potere di scelta dei candidati alle elezioni, di renderlo dominus quasi assoluto su quella stessa maggioranza. Non si può trascurare il fatto che è in corso un processo di involuzione dei partiti che tendono sempre più a trasformarsi in comitati elettorali dell’aspirante premier. Ma c’è anche un’altra ragione, che sembra essere sfuggita al più dei critici della riforma: sta avendo luogo comunque una forte concentrazione del potere politico a Palazzo Chigi. All’interno del Consiglio dei ministri contano solo quei ministri che vanno d’accordo col suo presidente, mentre gli altri sono tagliati fuori da decisioni importanti (si ricorderanno le lamentele della Guidi quando era ministra). Inoltre il premier ha messo insieme tutto uno staff di collaboratori che lo mettono in grado di elaborare lui l’intera politica del governo, per cui il Consiglio di ministri ha sempre più la funzione di approvare decisioni già prese altrove. Basti pensare alla politica economica del governo: è sotto gli occhi di tutti (o almeno di tutti coloro che vogliono vedere) che questa viene elaborata a Palazzo Chigi (anche i responsabili di una spending review mai attuata veramente rispondono al premier e non al ministro dell’economia) e che il povero Padoan ha il compito ingrato di fare tornare i conti e di contrattare condizioni più favorevoli con Bruxelles – oltre a trovarsi reclutato nella campagna a favore della riforma costituzionale. C’è da domandarsi se un sistema così ad personam sia desiderabile sia in se stesso, come se bastasse un unico cervello per affrontare i problemi del paese, sia per il futuro, quando il presidente del Consiglio che verrà dopo Renzi (il quale ha comunque promesso di ritirarsi dopo due mandati) si troverà a gestire una macchina di governo poco padroneggiabile. Invece di un aumento dei poteri ottenuto in modo surrettizio è preferibile un aumento dei poteri più limitato e alla luce del sole.

Le due ragioni, messe insieme, mostrano indubbiamente che è in corso un processo di concentrazione del potere politico nelle mani del presidente del Consiglio, con uno sviluppo in senso ‘monarchico’ (‘monarchia’ nel senso prima di tutto letterale di ‘governo di uno solo’), anche nello stile di governo adottato: elargizioni o regalie concesse a suo piacimento dal sovrano ai vari gruppi di cittadini-sudditi (senza curarsi della crescita del debito pubblico), mentre non sono rispettati gli impegni dello Stato (stipendi tenuti bloccati al di là di una situazione eccezionale di emergenza, ritardi nei pagamenti dovuti per servizi resi all’amministrazione pubblica, ecc.). Il rischio per il futuro è quello di un’involuzione non tanto (come qualcuno paventa) in senso oligarchico quanto nel senso di una dittatura dolce o morbida (soft dictatorship), resa possibile da un uso spregiudicato dei mezzi di comunicazione (va ricordato che i principali dittatori del secolo scorso disponevano quasi solo della radio per fare pervenire i loro messaggi ad un pubblico vasto).

Altra riforma mancata: credo che i costituenti abbiano commesso un serio errore nell’affidare il sistema elettorale da adottare a legislazione ordinaria, senza richiedere una maggioranza qualificata ed una procedura più complessa, alla stregua di una legge costituzionale. Il cambiamento di legge elettorale incide sulla vita politica non meno che certe modifiche della costituzione. Così, come di fatto è talvolta avvenuto, ogni maggioranza parlamentare può cambiare la legge a suo piacimento, per ottenerne un proprio vantaggio. Una nuova legge elettorale che venga discussa in Parlamento andrebbe anche sottoposta in modo automatico al vaglio della Corte costituzionale (e non con la procedura prevista dalla riforma Renzi-Boschi).

Non si può non osservare, a proposito delle due riforme mancate ora segnalate, che nel caso di vittoria del Sì il governo non avrà alcun interesse a favorire una modifica dell’attuale legge elettorale, che ha effetti così distorsivi, salvo che non venga obbligato a questo da una sentenza della Corte costituzionale.

Una terza riforma mancata: è singolare il seguente nuovo comma dell’art. 71: “Al fine di favorire la partecipazione dei cittadini alla determinazione delle politiche pubbliche, la legge costituzionale stabilisce condizioni ed effetti di referendum popolari propositivi e d’indirizzo, nonché di altre forme di consultazione, anche delle formazioni sociali. Con legge approvata da entrambe le Camere sono disposte le modalità di attuazione.” L’articolo della Costituzione che riguarda i referendum popolari è il 75, e sarebbe bastato modificare la sua dizione, precisando appunto che i referendum possono essere non solo abrogativi ma anche propositivi, per ottenere il risultato (l’articolo già precisa i casi in cui un referendum non è ammesso). Tale modifica sarebbe stata opportuna, perché è abbastanza chiaro che i costituenti avevano delle forti riserve verso questo istituto per l’abuso che se ne è fatto nei regimi fascisti. Così com’è il comma citato presenta equivocamente come cosa fatta quella che è solo una riforma costituzionale promessa. La carta costituzionale così modificata credo costituirebbe un unicum al mondo: una legge che non stabilisce nulla ma promette o contempla come desiderabile una futura legge che non si sa quando, e se mai, verrà approvata. Su quello che passa per la testa di un legislatore che redige una legge del genere si può solo speculare.

Al fine così dichiarato di favorire la partecipazione dei cittadini alla determinazione delle politiche pubbliche vengono incontro, ma solo in apparenza, alcuni altri provvedimenti previsti dalla riforma. Il primo riguarda le leggi di iniziativa popolare previste sempre dall’art. 71 (attuale comma 2). Una modifica in senso indubbiamente positivo è che si garantiscono tempi certi (anche se non determinati, perché stabilirli spetta ai regolamenti parlamentari): attualmente queste leggi sono lettera morta, perché non vengono quasi mai discusse, tanto meno approvate. (E’ uno scandalo che non avrebbe mai dovuto verificarsi.) Ma viene notevolmente innalzato il numero di firme richieste per la presentazione di una legge del genere: da 50.000 a 150.000, come se ci si aspettasse un’improbabile inondazione di leggi di iniziativa popolare. Evidentemente ciò che si concede con una mano si toglie con l’altra. Il secondo provvedimento concerne il citato art. 75 che regolamenta i referendum popolari solo abrogativi: di fronte al fatto che questi referendum spesso risultano nulli perché non è stata raggiunta la maggioranza degli aventi diritto, invece di abbassare il quorum (per esempio dal 50 al 40 %), si elimina la richiesta di un quorum nel caso in cui le firme raccolte siano 800.000 invece di 500.000. Non si vede perché i referendum che soddisfano a questo requisito meritino un trattamento speciale, quando manifestamente è una questione di organizzazione e quando per partiti e associazione che non dispongano di molti mezzi è già difficile arrivare alle 500.000 firme autenticate.

Una quarta riforma mancata: l’art. 67, che nella versione non modificata suona “ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”, e che viene riproposto quasi identico ma cancellando “rappresenta la Nazione” (come se fra le due cose non ci fosse un rapporto), ha bisogno di essere ripensato di fronte ai talvolta anche scandalosi cambi di casacca da parte dei parlamentari. La norma citata si ispira alla molto ottimistica convinzione che i parlamentari sono tutti o quasi tutti dotati di una viva coscienza morale e che, se lasciati liberi di seguirla, opereranno al meglio nell’interesse della Nazione. Nella realtà prevalgono gli interessi particolari (della propria circoscrizione, del proprio partito, ecc.). Una restrizione che si può proporre (non escludo che si possa proporre di meglio) è che chi abbandona il partito o gruppo (lista civica, ecc.) col quale si è presentato alle elezioni può solo aderire ad un gruppo indipendente e non ad un altro partito o ad un gruppo di diverso orientamento, e tanto meno può entrare a fare parte del governo (se non ne fa già parte). Come si può vedere, una restrizione del genere non concerne le decisioni che il parlamentare prende di volta in volta ma il suo orientamento politico generale, che è quello in base al quale si era presentato alle elezioni: è contestabile infatti l’idea che egli non debba rispondere in alcun modo di fronte al proprio elettorato, al quale si è presentato con un certo programma (non basta che egli corra il rischio di non essere confermato a successive elezioni). C’è anche un altro aspetto da rilevare: il frequente ricorso alla votazione di fiducia da parte di tutti i governi recenti ha un effetto ricattatorio sui componenti della maggioranza (‘se non voti la fiducia, il governo cade e c’è il rischio di andare ad elezioni anticipate’), sicché la libertà sancita dall’art. 67 viene di fatto annullata. La richiesta del voto di fiducia (salvo ovviamente alla presentazione di un governo), come la verifica del numero legale, dovrebbe essere uno strumento a tutela delle minoranze, sicché questo abuso andrebbe represso. Come si può vedere, questa è una materia delicata, che concerne il modo in cui funziona il Parlamento, sicché, in occasione di una riforma costituzionale, si sarebbe dovuto dedicare ad essa una notevole riflessione, per cercare le soluzioni migliori. (C’è da aggiungere che qualche giurista ha notato che, siccome i senatori del Senato riformato non rappresentano più la Nazione, la norma in questione non dovrebbe più applicarsi ad essi.)

Come si può vedere, in questo documento, a differenza della maggior parte dei documenti di critica della riforma costituzionale, ci si sofferma anche sulle riforme mancate. Non è un procedimento scorretto, perché, una volta che si ponga mano ad una riforma del genere, si deve riflettere seriamente su ciò che ha veramente bisogno di essere cambiato, sicché le riforme mancate sono come dei peccati di omissione, che non sempre sono meno gravi degli altri.

Naturalmente sarebbe eccessivo ed ingiusto sostenere che in questa riforma costituzionale non c’è niente di buono. Questo vale per esempio per la restrizione del potere del Governo di adottare decreti legge e, insieme, la determinazione di tempi certi per il voto della Camera sui progetti del Governo che ne caratterizzano l’indirizzo politico. (Tuttavia c’è anche il rischio, segnalato da alcuni costituzionalisti, di ridurre lo spazio all’iniziativa legislativa dei singoli parlamentari.) Vale anche per la soppressione del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (CNEL) con l’abrogazione dell’art. 99, dato che questo organo si è rivelato di quasi nulla utilità. (Ma è ridicolo dare tanto rilievo a questa soppressione, presentandola come uno dei caposaldi della riforma.) L’art. 97, comma 2 modificato, sancisce opportunamente l’obbligo di trasparenza delle amministrazioni pubbliche. Tuttavia serve molto di più (e può essere sufficiente) una legge ordinaria che stabilisca regole precise di trasparenza, in primo luogo obbligando le amministrazioni pubbliche a rendere accessibili (almeno su rete) bilanci precisi, dettagliati e comprensibili al pubblico, che così potrebbe esercitare una funzione di controllo. Infine, è opportuno il nuovo comma dell’art. 64 secondo il quale “i regolamenti delle Camere garantiscono i diritti delle minoranze parlamentari”, ma ovviamente è da vedere in che modo questa prescrizione troverà attuazione, data anche la sua indeterminatezza. C’è dunque del buono, ma quanto di buono la riforma contiene non può compensare quanto deve suscitare delle serie riserve.

In conclusione, che la riforma costituzionale Renzi-Boschi non sia la migliore possibile viene spesso concesso anche dai suoi sostenitori che, di fronte a critiche, sono indotti a dire, con qualche imbarazzo, che essa “è perfettibile”. Per un verso si afferma che questa è l’ultima occasione per riformare la Costituzione, per un altro verso, nell’affermare che quanto proposto è perfettibile e nel redigere il citato comma dell’art. 71, si auspica una prossima nuova riforma costituzionale per rimediare a ciò che appare insoddisfacente o incompleto. Ovviamente tutto ciò che è opera dell’uomo è perfettibile, ma i costituenti non sentivano l’esigenza di giustificarsi a questo modo, perché avevano dedicato le loro migliori energie per ottenere un buon risultato. Tale risultato non è ottenuto se per evitare il bicameralismo perfetto si riduce il Senato ad un’istituzione striminzita ed umbratile: sarebbe stato ancora meglio abolirlo del tutto e ampliare i compiti della Conferenza Stato-Regioni.

Si potrebbe ritenere che si stia dando troppa importanza ad un documento scritto come la Carta costituzionale. Tuttavia c’è da replicare che, quando attorno ad un documento del genere si crea un ‘patriottismo costituzionale’, cioè una condivisione di ideali ed obbiettivi, come avviene negli Stati Uniti (dove c’è fin troppa riluttanza ad introdurre modifiche anche piccole alla Carta), ciò fa non poca differenza per una nazione. Si può aggiungere che la Germania è riuscita ad uscire senza troppe scosse da un regime simile a quello fascista dal quale è uscita l’Italia anche perché si è dotata di una buona Carta costituzionale, che nessuna persona seria là propone di modificare in modo radicale. (S’intende, nessuna Carta costituzionale può fare miracoli: anche quella della Repubblica di Weimar era buona, ma non ha impedito l’ascesa del nazismo; però il nazismo non ha avuto la forza e il coraggio di proporre una propria Carta costituzionale e si è limitato a sospendere l’esistente adducendo uno stato di emergenza.) E’ nel nostro paese che le forze politiche di vario colore non pretendono semplicemente di aggiornare in modo puntuale e ragionevole la nostra Carta ma ambiscono a sovvertirne l’impianto di fondo. Si va dalla Bicamerale del 1997-99 presieduta da Massimo D’Alema, passando per la riforma del titolo V (1999-2000), per arrivare alla riforma voluta dal Governo Berlusconi (2004-2006). Fra quest’ultima e quella voluta dal Governo Renzi, che per certi aspetti è una contro-riforma del titolo V, ci sono degli evidenti punti di contatto, e solo il fatto che i poteri del presidente del Consiglio dei ministri non sono toccati (come si è visto, solo nella Carta costituzionale e non nella realtà) può creare l’impressione che sia molto diversa. Lungi dall’essere questa l’ultima occasione per riformare la Costituzione questi precedenti fanno pensare che, se questo tentativo fallisse, presto ce ne sarà uno nuovo, sulla stessa linea. Questa pervicacia nel voler riformare (in effetti sconvolgere) la Costituzione del 1948 – riforme, riforme, riforme è la parola d’ordine di ogni governo, come se tutte le riforme fossero un bene (la scuola è ormai stata riformata un bel po’ di volte e nessuno può sostenere che è migliorata) – riflette un profondo malessere del paese, che si vuole curare non cercando di individuarne le cause ma con espedienti illusionistici.

 

 

 Per saperne di più

  • “Il documento di 50 costituzionalisti sulla riforma costituzionale” – documento che viene richiamato sopra – si reperisce su rete con Google digitando tale dizione.
  • Libertà e giustizia è un’associazione che si è schierata per il No. Al suo sito (www.libertàegiustizia.it) sono reperibili interventi sul tema e da esso è scaricabile l’opuscolo intitolato Le ragioni del NO.
  • Si può consultare ugualmente il sito del Comitato per il NO – Referendum costituzionale (www.referendumcostituzionale/online), donde è scaricabile fra l’altro il libro (ottenibile anche in libreria) di Alessandro Pace, il quale presiede tale comitato: Referendum 2016 sulla Riforma Costituzione – le ragioni del NO, Giuffrè Editore, Milano 2016 (lavoro piuttosto dettagliato), un estratto dal libro di Zagrebelsky citato nel seguito, e dove sono segnalate altre pubblicazioni.
  • Gustavo Zagrebelsky (il noto costituzionalista che ha tenuto un dibattito pubblico con Renzi a La 7) è l’autore, insieme a F. Pallante, di Loro diranno, noi diciamo. Vademecum sulle riforme istituzionali, Laterza Editore, Roma-Bari 2015.
  • Salvatore Settis, noto studioso, è l’autore di Costituzione! Perché attuarla è meglio che cambiarla, Einaudi Editore, Torino 2016, libro che raccoglie una serie di suoi interventi a difesa dei principi della Costituzione vigente.
  • Nadia Urbinati e David Ragazzoni sono gli autori di La vera Seconda Repubblica. L’ideologia e la macchina, Raffaello Cortina Editore, Milano 2016, libro che offre un quadro dei tentativi (riusciti e non riusciti) di riforma costituzionale fin qui compiuti.
  • E’ da menzionare almeno un libro (quello a mio avviso migliore) a favore della riforma: Guido Crainz e Carlo Fusaro, Aggiornare la Costituzione. Storia e ragioni di una riforma. Donzelli Editore, Roma 2016.

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 APPENDICI

1. Ruolo, compiti e composizione del Senato

Dalle indicazioni sopra fornite è palese che io non condivido l’opinione anche di quei critici della riforma costituzionale (per esempio i citati 50 costituzionalisti) che vogliono che il Senato “sia reale espressione delle istituzioni regionali”, perché il nostro ordinamento non è federale e perché una Camera così concepita non viene incontro alle principali esigenze del paese. La mia proposta è invece di un Senato che abbia funzioni sia legislative sia di controllo. Ma la legislazione di cui esso si dovrebbe occupare non è quella contingente (per esempio la legge di stabilità) o quella concernente territori particolari o settori molto specifici. Dovrebbe occuparsi per esempio della riforma della giustizia, dedicando al tema tutto il tempo necessario per un dibattimento approfondito, dando dunque ampio ascolto dei pareri di esperti e non esperti, senza la pressione di urgenze come avviene inevitabilmente nell’operare della Camera dei deputati. In altre parole, il Senato dovrebbe avere l’iniziativa dell’elaborazione delle leggi di largo respiro, e questa dovrebbe essere tolta al Governo (che la sta avendo sempre più spesso, anche tramite leggi-delega); lo stesso dovrebbe valere per leggi riguardanti i diritti civili (per esempio una legge sull’eutanasia). Queste leggi sarebbero poi approvate anche dalla Camera dei deputati, ma con poteri limitati di modifica, e in ogni caso la decisione ultima spetterebbe al Senato. In tal maniera si avrebbe un sensibile rafforzamento del parlamentarismo. Un Senato con tali compiti dovrebbe essere meno qualificato politicamente (cioè in senso partitico) della Camera dei deputati e dunque non dare la fiducia al governo, il cui operato dovrebbe invece essere sottoposto al suo controllo. Eventuali commissioni di inchiesta dovrebbero essere affidate primariamente, se non esclusivamente, al Senato.

Quanto alla sua composizione, il Senato dovrebbe comprendere una rappresentanza più nutrita di quella attuale di persone che si sono distinte nei vari campi (non dovrebbe trattarsi di un riconoscimento quasi postumo, come avviene attualmente con una certa frequenza, ma di reclutare persone in grado di dare un valido contributo all’attività legislativa e di controllo). Dovrebbe certo comprendere anche comuni cittadini (ammesso che coloro che si dedicano alla politica siano comuni cittadini), eletti in modo diretto da altri cittadini, che dovrebbero essere dotati di mezzi adeguati (segretari, consulenti esperti, ecc.) per svolgere al meglio il loro compito. Come mostra il caso dei Cinque Stelle (indipendentemente dal giudizio che si dia altrimenti di questo movimento) persone intelligenti e volenterose possono acquistare in un lasso di tempo limitato una padronanza piuttosto buona delle questioni di politica, sicché il Senato non deve trasformarsi in una Camera dei competenti (nel senso ristretto del termine). I cittadini che vogliono fare parte del Senato dovrebbero presentarsi agli elettori in base ad un programma che spieghi in che modo essi ritengono di essere in grado di dare un contributo utile allo svolgimento delle funzioni del Senato, piuttosto che per appartenenza ad un gruppo politico, anche se naturalmente ci si deve aspettare che essi abbiano un certo orientamento politico e lo rendano esplicito.

2. Oligarchia e democrazia sono la stessa cosa?

E’ la tesi, sorprendente ed estrema, che è stata sostenuta da Eugenio Scalfari nel suo domenicale su “la Repubblica” del 2 ottobre, nel commentare il dibattito televisivo tra Renzi e Zagrebelsky di venerdì su La 7, sostenendo che il secondo, in quel confronto, aveva perso con un 0-2 per avere prospettato un esito oligarchico (e pertanto antidemocratico) per la politica riformistica del premier. Se, al contrario di quello che pensa il costituzionalista, non c’è un’opposizione fra oligarchia e democrazia, palesemente egli è in errore e Renzi ha ragione. Anche se questo giudizio di Scalfari fosse ben fondato, il suo pallottoliere non funziona bene: si tratta di un 0-1. Ma metterla così, in termini calcistici, non sembra troppo appropriato, perché, anche se Zagrebelsky avesse avuto la peggio (e io sono incline a consentire con Scalfari in questo, ma perché egli ha mancato di efficacia dialettica), ciò non prova ancora che Renzi ha ragione.

In maniera indiretta avevo suggerito questo in una lettera inviata alla rubrica delle lettere di “la Repubblica” ma non pubblicata, nonostante la solenne dichiarazione del direttore del giornale di voler dare spazio a tutte le voci, per ragioni che sono ovvie a chi la legge. La riporto: “Zagrebelsky, nel suo confronto con Renzi, sicuramente non è stato troppo accorto a parlare genericamente di rischio oligarchico, ma Scalfari, nella lezioncina che gli impartisce nel suo ultimo domenicale, trascura il fatto che “oligarchia”, in gran parte della tradizione del pensiero politico, ha un senso negativo e viene per questo tenuta distinta da “aristocrazia” (cfr. p. es. Il Dizionario di Politica a cura di Bobbio, Matteucci, Pasquino, UTET, s.v. Oligarchia). Quella di Pericle passava per un’aristocrazia con veste democratica, perché aveva il consenso del popolo. Quella di Renzi, come Scalfari deve ammettere, è una monarchia (nel senso letterale di ‘governo di uno solo’), anche nello stile (elargizioni a piacimento del sovrano, senza badare al debito pubblico), e solo nei suoi desideri sta per convertirsi in aristocrazia, per cui il problema si pone se un unico cervello, per quanto “anguillesco”, basti per affrontare tutti i problemi del paese.” (L’”anguillesco” viene da una lamentela del costituzionalista di avere avuto l’impressione di avere a che fare con un interlocutore che gli sfuggiva come un’anguilla.)

In effetti “oligarchia”, pur significando letteralmente “governo dei pochi”, ha appunto un senso negativo, perché indicava in origine (nella Grecia antica) il governo dei pochi scelti per censo, o comunque non per merito, i quali perseguono in primo luogo il proprio interesse – governo che per questo era tenuto distinto dal governo dei (pochi) migliori, l’aristocrazia appunto. Questo senso negativo del termine “oligarchia” viene sottolineato anche dallo stesso Zagrebelsky nella sua replica del12 ottobre ad un secondo domenicale nel quale Scalfari ribadiva la sua posizione sul rapporto fra oligarchia e democrazia. Anche a voler intendere il termine “oligarchia” nel suo senso letterale, un governo dei pochi può essere buono o cattivo, essere alla luce del sole o operare in modo occulto, sicché non si può dire che sia senz’altro compatibile con la democrazia. Quanto al termine “aristocrazia”, esso appartiene a quella tradizione di pensiero politico, ma è indubbiamente diventato desueto, anche se il suo senso rimane chiaro. Infine le ragioni per le quali io chiamo “monarchia” quella di Renzi sono spiegate un po’ più in dettaglio nel documento che precede. C’è una notevole differenza fra un presidente del Consiglio che opera come un primus inter pares e che persegue la sintesi fra pareri discordanti di persone che pensano con la propria testa ed uno che è convinto lui di essere in grado di risolvere tutti i problemi e si circonda di persone che gli danno ragione.

Ho parlato anche di “dittatura”, perché questa, anche se non sempre, ma di solito e tipicamente, è il potere senza restrizioni di uno solo. Scalfari, nella sua contro-replica del 13 ottobre, per un verso confonde le acque attribuendo a Zagrebelsky la tesi che l’oligarchia è sempre (e non in quella tradizione di pensiero politico) il governo dei ricchi, per un altro verso rigetta (giustamente a mio avviso) la tesi del costituzionalista che sia sempre l’oligarchia a degenerare in dittatura: il più delle volte, storicamente, le dittature non sono oligarchiche. A questo modo però la questione centrale viene elusa.

Per quanto la replica del Zagrebelsky sia più pertinente di quanto Scalfari voglia ammettere, soprattutto nel sottolineare che la democrazia, più che una realtà data, è un obbiettivo da perseguire, non senza conflitti (egli scrive: “la democrazia è lotta per la democrazia”), ci sono dei punti nel discorso di Scalfari che meritano qualche ulteriore puntualizzazione. Egli parte dalla ovvia constatazione che anche nei regimi più democratici è sempre una piccola minoranza a detenere il potere. Non si preoccupa però di fare certe distinzioni. E’ sempre la stessa piccola minoranza (stessa almeno nel senso che quelli che vengono meno sono sostituiti per cooptazione dal gruppo) che rimane al potere? E’ stato argomentato da Robert A. Dahl, anche a partire da ricerche empiriche, seguito da Joseph Schumpeter, che le cose in democrazia (almeno in una democrazia che funziona) non vanno così, perché in questo regime ci sono più gruppi che competono per il potere cercando di ottenere il consenso popolare. In questo senso non abbiamo a che fare con un’”oligarchia” (come assume Scalfari) ma con una “poliarchia”, cioè una pluralità di gruppi che si alternano al potere, a seconda del grado di consenso che riescono a raggiungere. L’altro aspetto, sul quale Scalfari tende ad insistere (senza chiarire in che modo differisce dal primo), è quello sul quale aveva rivolto l’attenzione Roberto Michels (sviluppando una tesi di Gaetano Mosca), per il quale all’interno di un’organizzazione come un partito finisce sempre col costituirsi una piccola minoranza (quasi inamovibile) al potere, sicché egli era indotto a parlare della “ferrea legge dell’oligarchia”. Siccome alle elezioni al Parlamento e agli altri organi di governo in un paese si presentano persone che sono scelte dai capi del partito, e scelte per la loro fedeltà, si ha effettivamente un sistema oligarchico, per cui l’alternanza al potere di cui si è fatto parola è sì reale ma concerne quelle che rimangono delle oligarchie. (Per tutta la teorizzazione cui faccio riferimento si può vedere per esempio Giovanni Sartori, Democrazia: Cosa è, “BUR” Saggi, specialm. cap. VI.)

Che ci sia una tendenza in tale senso in organizzazioni come i partiti il cui ruolo è fondamentale per la vita democratica di un paese è fuor di dubbio. Questo però non vuol dire che sia operante una legge ferrea cui non si può sfuggire. Spesso le gerarchie all’interno di un partito, specie di fronte a ripetute sconfitte elettorali, possono diventare piuttosto fluide lasciando spazio all’emergenza di qualche outsider – almeno relativamente tale. (Renzi ne è stato proprio un esempio all’interno del Partito Democratico.) I partiti poi potrebbero essere più democratici al loro interno se (con la finzione di essere delle associazioni private) non si sottraessero ad ogni normativa che ne regoli democraticamente il funzionamento. Ancora, fa differenza quale sistema elettorale venga adottato, perché per esempio con circoscrizioni ristrette a sistema uninominale è vero che sono i partiti a designare i candidati ma è loro interesse non presentare candidati ‘paracadutati’ dal centro perché questi hanno minori possibilità di essere votati. Con queste considerazioni si riconosce s’intende che ci sono dei problemi che concernono la democrazia ma che essi non sono sciolti tagliando il nodo gordiano con la semplice equivalenza “democrazia = oligarchia”.


(*) L’autore è uno storico della filosofia antica.

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