C’è contraddizione tra l’aver votato sì in Aula alla riforma e annunciare ora il no il 4 dicembre? Secondo l’avvocato Felice Besostri del Coordinamento Democrazia Costituzionale, no, se si tiene in considerazione l’intreccio che si crea tra Italicum e legge Renzi-Boschi. Basta, ad esempio, considerare l’articolo 90 della Costituzione sull’elezione del Presidente della Repubblica, che è rimasto invariato.
“Con la Carta attuale -spiega l’avvocato Besostri- la maggioranza assoluta del Parlamento in seduta comune è calcolata su 950 membri (630 + 315+ 5 senatori a vita) quindi 476. Con la riforma è ridotta a 366 (cioè 630 + 100: 2= 365 +1). Chi vince il premio di maggioranza alle elezioni ottiene 340 voti di maggioranza, il che significa che gliene mancano appena 26 per arrivare alla maggioranza assoluta”.
“Anzi, in realtà meno -prosegue il giurista- perché ci sono 12 deputati della circoscrizione estero che si aggiungono al premio di maggioranza: ne bastano sei per arrivare a 346 voti. Poi ci sono i 12 delle regioni Val d’Aosta e Trentino Alto Adige, di cui 9 uninominali e sempre acquisiti comunque al primo turno, molti di loro filogovernativi da sempre. Quindi 360 + 6 esteri + 9 regionali autonomi = 355. A questo punto ne mancano solo 11 e non sarà difficile trovarli tra i sindaci e i consiglieri regionali seduti a Palazzo Madama, appartenenti allo stesso partito del presidente del Consiglio dei ministri”.
Credo che ci sia stato un refuso nella pubblicazione di questo articolo.
Le considerazioni svolte dall’autore sembrano riguardare la messa in stato d’accusa del Presidente della Repubblica (art. 90) e non la sua elezione (art. 83).
Con la riforma la maggioranza richiesta per l’elezione del Presidente, dal settimo scrutinio, sarebbe pari ai 3/5 dei votanti.
I numeri sarebbero dunque molto diversi (441 se tutti i parlamentari fossero presenti).
Se, grazie ad accordi palesi o “sottobanco”, una o più forze politiche decidessero di disertare le votazioni, l’elezione avverrebbe grazie al NON voto.
Cordiali saluti.