Presidente Napolitano, abbiamo il diritto di sapere se andremo a votare una riforma targata JP Morgan

08 Ott 2016

Tomaso Montanari

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Il presidente emerito Giorgio Napolitano non risponde a Salvatore Settis. Il presidente del consiglio scientifico del Louvre (un archeologo con due lauree ad honorem in diritto costituzionale) gli aveva chiesto di confermare o smentire un articolo delCorriere del 2014 in cui si diceva esplicitamente che la strada della riforma costituzionale era quella indicata dalla banca d’affari americana JP Morgan.

Napolitano ha scritto che si tratta di “domande insinuanti e aspre”, e non ha risposto. Eppure la domanda era non solo legittima, ma urgente.

Matteo Renzi ha più volte detto esplicitamente che il suo modello di leader politico è Tony Blair, e ha anche più volte annunciato che dopo due mandati alla guida del governo farà come lui: andrà in giro per il mondo a fare conferenze e consulenze.

La domanda è: sarà identico anche il finanziatore? Il Financial Times ha stimato in due milioni e mezzo di sterline il compenso annuo che la JP Morgan versa a Blair, e la prima volta che Tony e Matteo hanno cenato insieme (a Palazzo Corsini, a Firenze) l’organizzatore era proprio l’amministratore delegato della banca americana.

Sarebbe del più alto interesse sapere quali politici italiani siano attualmente sul libro paga della banca: e in questi giorni Ferruccio De Bortoli ha mostrato come tali nessi abbiano pesantemente condizionato, e rischiano di continuare a condizionare, la sorte del Monte dei Paschi di Siena. Ma proprio perché questo grado di trasparenza è, da noi, inimmaginabile, una risposta di Napolitano avrebbe reso decisamente più chiara la partita referendaria.

Dobbiamo infatti ricordare che la JP Morgan ha scritto (in The Euro area adjustment: about halfway there, 28 maggio 2013) che “Le Costituzioni e i sistemi politici dei paesi della periferia meridionale, costruiti in seguito alla caduta del fascismo, hanno caratteristiche che non appaiono funzionali a un’ulteriore integrazione della regione. […] Queste Costituzioni tendono a mostrare una forte influenza socialista, che riflette la forza politica che le sinistre conquistarono dopo la sconfitta del fascismo. Questi sistemi politici periferici mostrano, in genere, le seguenti caratteristiche: governi deboli; stati centrali deboli rispetto alle regioni; tutela costituzionale dei diritti dei lavoratori; costruzione del consenso fondata sul clientelismo politico; e il diritto di protestare se cambiamenti sgraditi arrivano a turbare lo status quo. I punti deboli di questi sistemi sono stati rivelati dalla crisi. […] Ma qualcosa sta cambiando: il test chiave avverrà l’anno prossimo in Italia, dove il nuovo governo ha chiaramente l’opportunità impegnarsi in importanti riforme politiche”.

Era esattamente questo il passo citato nell’articolo del Corriere del 1° aprile 2014: “Ma una cosa il Capo dello Stato non la nega, nella nota del suo ufficio stampa: quella riforma per lui è importante, anzi “improrogabile”, dunque è positivo che ci si lavori subito, per mettere fine al bicameralismo paritario. L’ha detto in infinite occasioni, per dare una scossa contro “la persistente inazione del parlamento”. Spiegando che “la stabilità non è un valore se non si traduce in un’azione di governo adeguata” (ciò che in Senato con identici poteri alla Camera non consente) e associando quella riforma a quella del Titolo V della Carta e alla legge elettorale. A questo proposito basterebbe rileggersi il rapporto stilato dalla J.P. Morgan il 28 maggio 2013, là dove indica nella “debolezza dei governi rispetto al parlamento” e nelle “proteste contro ogni cambiamento” alcuni vizi congeniti del sistema italiano. Ecco una sfida decisiva della missione di Renzi. La velocità impressa dal premier, quindi, a Napolitano non dispiace”.

Ora, due anni dopo e in piena campagna referendaria, Napolitano trova “insinuante” la domanda di Settis: ma gli italiani hanno il diritto di sapere se stanno votando su una riforma targata JP Morgan. La vita politica italiana è malata: su questo concordano tanto i sostenitori del Sì che quelli del no. Ciò su cui si dividono è la diagnosi: e, dunque, la terapia.

La riforma costituzionale Napolitano-Renzi-Boschi è una “cura” motivata dalla convinzione che il male dell’Italia sia un eccesso di democrazia. I cittadini conterebbero troppo, il parlamento sarebbe troppo incisivo, i diritti dei lavoratori troppo garantiti, gli enti locali più vicini al territorio (le Regioni) troppo potenti. Ecco dunque la ricetta: far votare meno i cittadini (per esempio togliendo loro il potere di eleggere il Senato, che tuttavia continuerà a fare le leggi), far contare meno i loro voti (a questo serve l’Italicum), accentrare tutti i poteri in capo al governo di Roma (ecco il nuovo Titolo V della Costituzione), e così via. Nel momento in cui gli italiani sono chiamati a decidere se dar corso o meno a questa cura da cavalli, hanno il diritto di conoscere i titoli e il curriculum dei medici che la propongono.

Ora, la domanda è: possiamo fidarci del medico JP Morgan, e della sua ricetta? Davvero dobbiamo cambiare il sistema di garanzie democratiche costruite dopo il fascismo perché ce lo chiede una banca condannata a pagare una multa da 13 miliardi di dollari per aver piazzato pacchetti finanziari inquinati, ed aver quindi contribuito ad innescare quella stessa crisi che ora ci spinge a cambiare la Costituzione?

Io non credo. Sono d’accordo, invece, con ciò che un perfetto coetaneo e compagno di partito di Napolitano –Alfredo Reichlin– ha scritto sull’Unità del 30 settembre: “A me questo non sta bene. È chiaro? Io ho preso le armi per dare all’Italia un parlamento. Io ricordo i tanti che allora volevano un regime politico più “avanzato” nel senso di dare poteri più diretti al popolo (i CLN). E ricordo la risposta di Togliatti: no, il Pci vuole una repubblica parlamentare. E su ciò si fece la Costituzione. Il parlamento funziona male? Sì, ma solo il parlamento è lo specchio del paese, è la casa di tutto il popolo “ricchi e poveri, borghesi e proletari”. Non è la privativa di nessuno. Di nessuno: nemmeno della JP Morgan. O dei suoi consulenti.

Huffingtonpost, 5 Ottobre 2016

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