PARLAMENTO – All’ origine della «guerra»

PARLAMENTO – All’ origine della «guerra»

Napolitano si preoccupa per l’ esasperazione del confronto sul referendum costituzionale. Preoccupazione giusta, perché nessuno si può compiacere della circostanza che una riforma di 47 articoli della Costituzione, che una nuova e diversa architettura dello Stato possano sortire da una lacerante divisione. I vecchi, saggi costituenti rappresentavano la Repubblica come «casa comune» dentro la quale siamo chiamati ad abitare insieme (così, per esempio, Moro). Non è buona cosa che mezzo paese – vinca il sì o vinca il no – debba sentire a sé estranea o addirittura ostile la casa che abita. Un prezzo troppo alto.

Dunque, preoccupazione giusta quella di Napolitano. Ma ci dovremmo interrogare sulle cause e sulle responsabilità di un confronto che sconfina nello scontro. Una traccia la fornisce lui stesso: l’ errore della personalizzazione della contesa operata dal premier; una legge elettorale sbagliata varata addirittura con il ricorso al voto di fiducia (non vi sono precedenti al riguardo) e sulla quale già oggi, a suo dire, il Pd dovrebbe prendere una iniziativa volta a cambiarla senza attendere la Consulta; il ricorso improprio al referendum costituzionale – istituto concepito come strumento delle minoranze sconfitte in parlamento – da parte della maggioranza di governo favorevole alla riforma. Tutti elementi, questi, che alterano il senso del referendum, che lo snaturano, che avvelenano il confronto e che conducono i critici, con buone ragioni, a parlare di plebiscito.

Scusate se è poco…

Ma se si vuole andare alla radice della deriva paventata da Napolitano bisogna fare un passo indietro. Risalire all’ avvio della legislatura. È sorprendente quanto sia labile la memoria collettiva. Non vi fu un chiaro vincitore delle elezioni. L’ opinione largamente prevalente, allora, era la seguente: si faccia un governo del presidente o istituzionale che dir si voglia e, entro un anno al massimo, si restituisca la parola ai cittadini -elettori. A intuito, nessuno si sarebbe azzardato a sostenere che quel parlamento avesse titolo per fare una grande riforma costituzionale. E invece il governo Letta, proprio dietro sollecitazione di Napolitano, si assegnò quel compito. Con una procedura farraginosa, in deroga alll’ articolo 138 della Costituzione, che si risolse in nulla. Così come, con ancor più enfasi e con procedura ordinaria, fece il governo Renzi. Governo legittimo, sia chiaro, ma anch’ esso privo di una investitura elettorale.

Nel frattempo, intervenne la sentenza con la quale la Consulta dichiarò incostituzionale il Porcellum. Essa non si spingeva sino a confutare la legittimità del parlamento nella sua attività legislativa ordinaria, ma certo una grande riforma costituzionale è cosa affatto diversa, che avrebbe presupposto ben altra autorevolezza e ben altro mandato. Dunque, due governi, a debole investitura, hanno fatto della riforma costituzionale, materia genuinamente parlamentare, la propria ragione sociale. Con l’ avallo e la sponda del presidente della Repubblica. Qui sta, a mio avviso, il peccato d’ origine dell’ intera vicenda. Che Renzi, non a torto, certifica sostenendo che «questa riforma porta il nome e il cognome di Giorgio Napolitano». È la verità, anche se l’ interessato comprensibilmente si schermisce.

Insomma: come sorprendersi dei contrasti e dell’ incattivimento del confronto su una grande riforma costituzionale che affonda le sue radici ed è segnata da un percorso nel quale la giusta sequenza parlamento -governo -presidente della Repubblica è sovvertita dalla sequenza presidente della Repubblica -governo -parlamento? Come non chiedersi se l’ improprio, esorbitante protagonismo del governo (e del premier) sulla più parlamentare delle materie non abbia concorso ad acuire il dissenso delle opposizioni e dunque a restringere le basi di consenso della riforma?

Faccio fatica a convincermi che a tale vizio d’ origine, a tale distorsione di metodo e di percorso si possa persuasivamente rispondere evocando l’ applauso dei parlamentari al discorso di insediamento del Napolitano 2. Non può essere un applauso a sanare un’anomalia.

(*) deputato del Pd.

 

ll Manifesto, 11 settembre 2016

2 commenti

  • Tutti i fondamentalisti sono dei conservatori ma, nel caso di Napolitano, quest’equazione funziona all’incontrario: lui è un conservatore di tipo fondamentalista. A lui non bastano i guasti del presente che nella sua lunga vita parlamentare ha tanto contribuito a creare (nelle coulisses di Botteghe Oscure si diceva “quel destro fottuto di Napolitano”), non meno di personaggi come D’Alema & Violante, tanto per non far nomi. No, bisognava che di suo pugno riscrivesse l’articolo 70 – e ne vediamo i risultati.

    Eppure, bisognerebbe giocare onestamente, magari non sempre, ma almeno quando si hanno le carte vincenti.

  • HALLELUJAH!!!

    Sono tre anni e mezzo che dico, anche su queste pagine, che Napolitano ha attentato gravemente alla Costituzione avviando e rendendo possibile un progetto di sovvertimento della Carta.

    Nel frattempo i professori universitari (non parlo di L&G), a mezza bocca e ben che andasse, esprimevano «perplessità» sul comportamento dell’ex presidente della Repubblica. Con il solito ridicolo eufemismo tecnico-giuridico.

    Sono tre anni e mezzo, tre-anni-e-mezzo, che a quelli che parlano di democrazia malata dico in metafora che quando hai l’infarto non serve a niente prendere il Maalox.

    HALLELUJAH!!! HALLELUJAH!!! HALLELUJAH!!!

    E adesso me lo sento dire da un parlamentare del Pd.
    27 marzo 2013-11 settembre 2016.

    Che cosa stavate a fare in parlamento 1267 giorni fa?

    È TROPPO TARDI.
    Adesso ci rimettiamo alla lotteria dei rigori e restiamo a sperare che il popolo, oltre che sovrano, sia anche capace di pensare con il suo cervello, perché nel non improbabile caso contrario non sarebbe il primo sovrano pupazzetto della storia.

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