Il nemico geniale

06 Set 2016

Tomaso Montanari

«È stato qui, e mi ha tirato una fucilata », mormorò John Constable in un giorno di primavera del 1832, rientrando nella sala della Royal Academy dove il suo quadro con l’Inaugurazione del Ponte di Waterloo era esposto accanto ad una marina di William Turner.

Cos’era successo? Constable aveva lavorato per un decennio a quella grande tela in cui il paesaggio urbano si faceva pittura di storia, una sorta di summa artistica nella quale aveva condensato i risultati di una lunghissima frequentazione di Canaletto, e di Claude Lorrain. Nulla di tutto questo preoccupò Turner, che fu invece colpito dai rossi brillanti delle bandiere e delle coperture delle barche che affollavano il Tamigi al centro del quadro del rivale: la sua Veduta di mare a Helvoetsylus era così grigia, al confronto. Così, con un gusto teatrale che finì di mandare in bestia Constable, egli entrò nella sala con la tavolozza, e aggiunse un tocco di rosso «non più grande di uno scellino » in mezzo al suo mare, andandosene soddisfatto.

Questo famoso episodio potrebbe avere un posto d’ onore in un ideale prequel del bellissimo libro che Sebastian Smee (critico d’arte del Boston Globe, e Premio Pulitzer nel 2011) ha appena dedicato a The Art of Rivalry (Random House, New York). Se il rapporto tra Constable e Turner potrebbe ambire a figurare come archetipo delle quattro coppie di artisti di cui si occupa Smee (Lucian Freud e Francis Bacon, Édouard Manet e Edgar Degas, Henri Matisse e Pablo Picasso e infine Jackson Pollock e Willem De Kooning) non è per la violenza della loro contrapposizione, ma per la fecondità della loro rivalità: non per la frase memorabile di Constable, insomma, ma per quell’ ineffabile misto di umiltà e competitività, riconoscimento del valore dell’ altro e senso di sé, che spinse Turner a ritoccare la propria tela.

Con la grazia che contraddistingue tutto il libro, Smee chiarisce, infatti, che la sua idea di rivalità «non ha nulla a che fare con il cliché macho dei nemici giurati, degli acerrimi competitori, o dei rancorosi testardi che si contendono senza quartiere la supremazia artistica, o anzi la supremazia tout court. Al contrario, è un libro sulla duttilità, sull’intimità, sull’apertura all’influenza altrui. Sulla suscettibilità. È un libro sulla seduzione, e dunque in certa misura anche sulle rotture e i tradimenti». In questa ricerca della sfumatura, della contraddizione e della complessità storica e psicologica che Smee è felicemente antimediatico: siamo lontanissimi dai luoghi comuni sulla violenta inimicizia tra Bernini e Borromini, o dalla mitologia fiorita sul, pur autenticamente storico, «sdegnio grandissimo tra Michelangelo Buonarroti e Leonardo » (Vasari). Ciò non vuol dire che quelle quattro rivalità siano state altrettante lune di miele. Basta ricordare la clamorosa storia del doppio ritratto che Degas dipinse a Manet e a sua moglie: un quadro che oggi termina incongruamente a metà del profilo di madame Manet, perché il suo illustre marito lo vandalizzò a coltellate in un momento di rabbia per come l’ amico l’ aveva ritratta. Eppure, anche un gesto tanto inequivocabile ha una spiegazione complessa, e perfino sfumata: l’ incontrollabile iconoclastia di Manet era causata dall’ irritazione per la crudeltà con cui Degas aveva ritratto il decadimento fisico di sua moglie? O, al contrario, da gelosia maritale?

O, ancora, da invidia artistica? Il vertice di questa felice ambiguità è forse rappresentato dal manifesto del 2001 con cui Lucian Freud cercò di recuperare il meraviglioso ritratto che aveva eseguito a Francis Bacon, e che era stato rubato in una mostra berlinese nel 1988: una grande scritta “Wanted” sovrasta la riproduzione del ritratto, e dunque del volto, di Bacon.

Con un doppio effetto: ironizzare sulla “criminalità” artistica del rivale, ma anche dichiarare – mettendo a nudo il fondo del proprio animo – quanto gli mancasse (letteralmente quanto “voleva”) l’ amico, morto nel 1992. Smee sostiene che un libro come il suo ha senso solo per l’ arte moderna, perché solo dopo l’ Impressionismo la ricerca della grandezza artistica si sarebbe identificata con l’ originalità, traducendosi in un corpo a corpo tra artisti della stessa generazione. In realtà questo è vero almeno fin dal primo Rinascimento: semmai il problema è che per gli artisti di quell’ epoca non abbiamo nemmeno un centesimo della capillare documentazione biografica che in Art of Rivalry è montata in modo così efficace. Se l’ avessimo, credo che la coppia più promettente per una biografia parallela di artisti rivali sarebbe quella che segna, per l’ appunto, l’ inizio dell’ arte moderna nella periodizzazione italiana: Annibale Carracci e Caravaggio. Sappiamo con certezza che il secondo incontrò il primo (o almeno una sua opera) nel 1599, nella piccola chiesa romana di Santa Caterina dei Funari.

Qui la Santa Margherita di Annibale deflagrò come una bomba: simile a quella che era esplosa centosettant’ anni prima nella Cappella Brancacci di Firenze, quando le ombre e i corpi di Masaccio avevano spazzato via i colori estenuati del gotico morente. Ora, invece, esplodeva il contrasto tra la esausta pittura dell’ ultimo manierismo romano e quella, naturalissima, di Annibale.

«Collocato il quadro sull’ altare – scrive un biografo di entrambi – per la novità [ecco spuntare l’ ossessione dei moderni!] vi concorsero i pittori, e fra’ vari discorsi loro, Michel Angelo da Caravaggio, dopo essersi fermato lungamente a riguardarlo, si rivolse e disse: “Mi rallegro che al mio tempo veggo pure un pittore!”». L’ ammirazione alimentava la rivalità, la quale a sua volta spingeva a scalare le vette della qualità: proprio parlando della Santa Margherita un allievo del Carracci ricorderà che «il Caravaggio ci moriva sopra, in riguardarla». Solo guardando i loro quadri è oggi possibile comprendere che i due non smisero mai di studiarsi: in una gara che era il tentativo di superarsi a vicenda, ma anche un continuo, mutuo riconoscimento.

E sono sempre le opere a suggerirci che tante altre coppie di artisti furono unite da rivalità feconde come l’ amore: rivalità nutrite – usiamo le parole ispirate di Smee – da «quella intimità che i manuali di storia dell’ arte non raccontano».

 

(*) Vice Presidente di Libertà e Giustizia
La Repubblica, 4 settembre 2016

 

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