Torna «Un eroe borghese» di Corrado Stajano, Ambrosoli resiste all’urto del tempo

25 Mag 2016

Pochi giorni fa ho incontrato per caso, in corso Magenta, a Milano, la signora Annalori Ambrosoli. A pochi passi da via Morozzo della Rocca dove il marito fu ucciso, l’ 11 luglio del 1979, da un killer della mafia ingaggiato dal finanziere Michele Sindona.

 

Ci siamo salutati con affetto. È molto impegnata nel volontariato. Abbiamo parlato di quello.

Ho poi guardato i passanti di «un quartiere della borghesia tradizionale nel quale – come scrive Corrado Stajano in Un eroe borghese – ci si rende subito conto di come è consolidata la ricchezza di chi ci vive e di come resiste la forma delle cose nonostante l’ urto del tempo». E mi sono chiesto se quei cittadini, che sfioravano la figura minuta e dolce di Annalori, conservassero un briciolo di memoria di quello che era accaduto, proprio lì. La memoria, purtroppo, soffre «l’ urto del tempo».

 

Quando venne freddato sul marciapiede sotto casa, Giorgio Ambrosoli, 45 anni, era il commissario liquidatore della Banca Privata Italiana di Sindona. Aveva dedicato tutto se stesso, con l’ aiuto di un altro leggendario servitore dello Stato, Silvio Novembre, alla ricostruzione dei fatti di un impero criminale che godeva, nonostante la bancarotta e le inchieste, di larghi appoggi e protezioni. Sapeva di rischiare la vita.

Lo aveva scritto già alla moglie in una lettera che doveva restare chiusa in un cassetto e che lei lesse per caso. Fu lasciato solo. Giulio Andreotti, che elogiò e protesse Sindona, disse poco prima di morire che «Ambrosoli se l’ era un po’ cercata».

 

In quel luglio torrido chi scrive era in cronaca al «Corriere». «Hanno ucciso un avvocato, vai a vedere». Io andai, pieno di fervore giovanile, accompagnato dalla mia imperdonabile ignoranza. Non sapevo chi fosse Ambrosoli. E anche l’ informazione dunque l’ aveva lasciato solo. Ricordo che nel pomeriggio del 12 luglio chiamammo anche Sindona. Era all’ hotel Pierre a New York. Rispose infastidito. Poi diramò un comunicato di circostanza che riportammo con un rispetto letterale fuori luogo. Gli articoli furono ampi e documentati. Lo spazio modesto.

 

Anche perché, il giorno dopo, venne assassinato brutalmente, da parte delle Brigate rosse, il colonnello dei carabinieri Antonio Varisco. Una vittima poi dimenticata degli anni del terrorismo. La rilettura di quegli articoli, comunque, mi ha messo a disagio.

 

Il giorno dei funerali a San Vittore al Corpo scrissi il mio articolo. La signora Annalori teneva per mano i suoi figli. Umberto «Betò» era piccolo, aveva sette anni. Una lezione di dignità e compostezza nel dolore. Ricordo il governatore della Banca d’ Italia, Paolo Baffi, seduto nelle ultime file come se si vergognasse dell’assenza di tutti gli altri rappresentanti delle istituzioni.

 

L’ isolamento di un avvocato per bene, cui lo Stato aveva richiesto un compito immane e pericoloso, proseguiva anche dopo la morte. E la figura di questo quieto conservatore milanese, con un passato monarchico, un calvinista delle regole, sarebbe scivolata nell’ oblio, se non fosse stato pubblicato, nel 1991, il libro di Corrado Stajano.

 

Un eroe borghese è ormai un classico. Lo ripropone in una nuova edizione il Saggiatore. Vi è stato tratto un film. È la pietra angolare del giornalismo d’ inchiesta. La descrizione fredda e precisa di quell’ intreccio del malaffare che ostacolò con ogni mezzo l’ opera di bonifica del riservato e cocciuto commissario liquidatore.

«Un nemico incommensurabilmente potente, legato a uomini politici di governo, alla finanza internazionale, dalla City a Wall Street, alle banche svizzere, legato al Vaticano, ai servizi segreti italiani e americani, legato alla P2 e alla massoneria…». Ci si domanda, nel rileggerlo tanti anni dopo, se questo coacervo spietato di interessi appartenga al Novecento e sia scomparso con la morte dei suoi interpreti. O se abbia, come è più probabile, allungato i suoi tentacoli, in forme diverse, sulla società attuale. Stajano scrive che all’ epoca «nessuno si accorse del magma putrido rimasto dietro le pareti tinteggiate di fresco». Una domanda attuale? Forse sì.

 

Ambrosoli ebbe la sfortuna di coltivare, con perseveranza ambrosiana e calvinista, un minoritario senso delle regole in un Paese allora «palude di manovre, di vendette e di ricatti». Le figure oneste e limpide non sono state e non sono poche. Ma appaiono sempre in una dimensione al limite dell’ eroismo, quasi fossero prigioniere di una quotidianità opaca. E dunque, per certi versi, impopolari nei loro ambienti professionali. Baffi e l’ allora direttore generale della Banca d’ Italia, Mario Sarcinelli, finiscono in carcere in una torbida manovra giudiziaria che ha lo scopo di premere perché si faccia il salvataggio della Banca Privata Italiana.

Ugo La Malfa, che si è opposto, come ministro del Tesoro, all’ aumento di capitale della Finambro, sferrando un colpo mortale a Sindona, muore proprio in quei giorni. Ambrosoli perde la fiducia, si sente ancora più isolato, e pensa di dimettersi.

 

Le ispezioni della Banca d’Italia, all’epoca di Carli, sono scrupolose ma si concludono solo con una segnalazione all’ autorità giudiziaria. La normalità del mercato del credito non deve essere turbata. Solo la forma è salva. «In nome dell’ ordine – scrive Stajano – si tollera uno spaventoso disordine». Enrico Cuccia, patron di Mediobanca, è tra i più risoluti oppositori del suo conterraneo, il siciliano Sindona. Consiglia le mosse di La Malfa. «Gli bruciano due volte la porta di casa e per anni sono infinite le telefonate che devastano le sue notti». Accetta di incontrare Sindona, che aveva conosciuto negli anni Cinquanta, grazie all’ intercessione di Franco Marinotti della Snia, nell’ aprile del ’79 a New York. Percepisce il pericolo che corre Ambrosoli ma non spezza la regola del silenzio che osserverà per tutta la vita.

 

La rilettura di questo libro rimescola sentimenti assopiti e riaccende antiche reazioni di sdegno. Gli uomini di Sindona hanno accesso privilegiato alle istituzioni. Il suo avvocato, Rodolfo Guzzi, parla direttamente con Andreotti e con il suo fido braccio destro Franco Evangelisti. Anche quando il bancarottiere ha già scelto la via della morte per Ambrosoli. E le minacce telefoniche si fanno insistenti. Il commissario ne parlerà all’ avvocato Guzzi, gli farà ascoltare in viva voce la chiamata di un «picciotto». In quelle stesse ore si susseguono gli incontri a palazzo Chigi tra chi vuole salvare l’ impero Sindona e chi vi si oppone, come Ciampi, subentrato a Baffi e Sarcinelli.

 

Siamo nel gennaio del ’79. Il 12 per l’ esattezza. Ambrosoli riceve un’altra chiamata. «L’ altro giorno ha voluto fare il furbo? Ha fatto registrare tutta la telefonata». «Chi glielo ha detto?».

«Eh, sono fatti miei. Io la volevo salvare ma da questo momento non la salvo più». «Non mi salva più?». «Non la salvo più perché lei è degno solo di morire ammazzato come un cornuto!». La sorte di Ambrosoli è segnata mentre in molti si affannano a salvare gli affari del suo assassino. Anche ai più alti livelli della Repubblica.

 

Ambrosoli farà il suo dovere fino all’ ultimo.

Lo Stato, salvo qualche lodevole eccezione, non lo ha fatto fin dall’ inizio.

Rileggere dopo tanti anni il capolavoro di Stajano serve a proteggere la memoria dall’urto del tempo. Non solo quella dell’ignaro passante del quartiere Magenta che incrocia lo sguardo dolce e sereno di Annalori Ambrosoli. La memoria di noi tutti, del Paese dei revisionismi facili, dei silenzi complici e delle amnesie collettive. E di tanti eroi lasciati soli.

 

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