Il diritto senza fazioni

17 Mag 2016

Accusato di spirito aristocratico e guardato con sospetto da quel popolo che rifiuta lezioni accademiche sul senso politico della democrazia, Gustavo Zagrebelsky non può essere conosciuto dai più solo per aver denunciato l’arroganza del princeps di Arcore e adesso l’incultura del renzismo.

Nel libro curato da Andrea Giorgis, Enrico Grosso e Jörg Luther (Il costituzionalista riluttante. Scritti per Gustavo Zagrebelsky, Einaudi, pp. 489, euro 35), autorevoli giuristi, politologi, giornalisti, storici e filosofi dedicano pagine intense al presidente emerito della Consulta, con l’intento di approfondire il suo contributo giuridico e teorico-politico. Non sorprende che nella prima parte del volume si parli soprattutto del suo Il diritto mite, pubblicato nel ’92, e il cui significato dottrinale andrebbe ravvisato, secondo Paolo Grossi, nel tentativo di ridimensionare la scuola del positivismo giuridico, accusata di raffreddare il sentimento di giustizia e di non rilanciare l’interrogativo categorico sul «prima» degli ordinamenti. L’intellettuale azionista estende la critica all’«ufficialità giuridica», ovvero a quella «legge» disegnata a tavolino da una borghesia che coltiva surrettiziamente l’odio di classe mediante lo strumento legale. Il Rechtsstaat e il codice napoleonico del 1804 tutelano la vocazione proprietaria del Terzo Stato e un individualismo sfrenato che non tiene conto della sensibilità sociale.

Contro il riduzionismo giuridico, Zagrebelsky difende lo Stato costituzionale novecentesco. Sposa l’approccio complesso del diritto e ripudia la faziosità esegetica del giurista, di colui che non può limitarsi a recepire articoli e regolamenti spegnendo la vita in un precetto. Il diritto mite deve nutrirsi di «equità» contrastando ogni impulso dogmatico e in particolare i deboli enunciati del giusnaturalismo.

Massimo Luciani è dell’avviso che l’impostazione di Zagrebelsky, da inquadrare nel solco del costituzionalismo liberaldemocratico di stampo kelseniano, sia poco attraente poiché sostituisce la centralità della legislazione con la sfera giurisdizionale. L’interprete individua nel Parlamento l’organo del «sano compromesso», mentre i giudici indossano un abito «aristocratico» che non obbedisce al ritmo flessibile delle società pluraliste.

L’eccesso di formalismo e la disattenzione sul vero inizio del diritto, per il teologo Vito Mancuso sono invece il frutto della principale «malattia spirituale» del nostro tempo. L’etica e la dimensione giuridica sono legate da un rapporto intrinseco: il venir meno dell’una segna lo svuotamento dell’altra. La fondazione del diritto riflette il linguaggio della coscienza e quest’ultimo non può essere incastrato nelle maglie insipide del positivismo.

Dopo la morte di Bobbio e Galante Garrone, scrive Ezio Mauro, Zagrebelsky diviene il nemico più pericoloso di una destra moderata che lo accusa di «gramsciazionismo». Il giurista torinese intende ripristinare il lessico maturo della politica e un adeguato «discorso sui fini» in modo tale, suggerisce Lorenza Carlassare, che non venga alterato il concetto della democrazia. Il suo «pensiero della possibilità», fedele all’ideale repubblicano, vieta il monopolio della sfera pubblica da parte del signorotto di turno e giustifica, aggiunge Nadia Urbinati, la costante apertura al processo deliberativo.

Il professore bacchetta puntualmente la demagogia al potere evitando di scivolare nel terreno insidioso del giacobinismo dove l’imperativo dell’ascolto, l’«inquietudine della ricerca» e la reazione culturale ai nuovi sofismi non potrebbero per natura attecchire. Temi peraltro molto cari al suo maestro Bobbio e che Zagrebelsky porta avanti con passione civile.

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