Riforma costituzionale/Regioni ridotte al rango di super Province con le modifiche previste

11 Mag 2016

L’articolo di Sabino Cassese pubblicato sul Corriere del 6 maggio («Perché la riforma costituzionale non tradisce la Repubblica») è un buon esempio del modo in cui bisognerebbe discutere il merito delle riforme sottoposte a referendum, contrastando la tendenza a farne un plebiscito sul Governo. I due argomenti affrontati — bicameralismo e Regioni — meritano distinto esame (e per questo dovrebbero essere oggetto anche di distinte pronunce popolari, al pari di altri aspetti della riforma, per evitare di costringere gli elettori a pronunciarsi con un unico sì o un unico no su argomenti non omogenei).

 Quanto al primo — la seconda Camera — nella tradizione costituzionale essa non ha tanto la funzione di garanzia contro eventuali eccessi della prima Camera (anche perché nella nostra storia è stata sempre, fino agli anni recentissimi, espressione dei medesimi rapporti fra maggioranza e opposizioni), ma piuttosto la funzione di rappresentare istanze differenziate della società. La scelta, quindi, di configurare esplicitamente il Senato come camera rappresentativa delle istituzioni territoriali — le Regioni — appare di per sé ineccepibile. Il problema è il modo in cui la riforma lo fa, non mettendo i nuovi senatori nelle condizioni di esprimere unitariamente la volontà delle rispettive Regioni, e negando al Senato funzioni di efficace dialogo e raccordo con la Camera e con il Governo sui temi delle autonomie.

 Sul secondo tema — il regionalismo — la legge costituzionale di oggi fa invece una scelta a mio avviso radicalmente sbagliata: non limitandosi a correggere alcuni evidenti errori, da tutti ammessi, della riforma del 2001, ma configurando un nuovo quadro nel quale l’autonomia legislativa delle Regioni viene praticamente ridotta a zero, senza nemmeno il beneficio di una maggiore chiarezza nel riparto di competenze e quindi senza scongiurare il rischio del contenzioso Stato-Regioni. Si pensi, a questo riguardo, all’oscurità insita in norme come quelle che riservano alla competenza «esclusiva» dello Stato materie tipicamente regionali quali il governo del territorio, ma limitandole al compito di dettare «disposizioni generali e comuni». Che vuol dire «disposizioni generali e comuni», al di là dell’ovvietà per cui le norme legislative sono «astratte e generali» e non contengono provvedimenti concreti, e valgono in tutto il territorio nazionale?

 Non è vero che le Regioni con l’attuale Costituzione siano «ferme al livello amministrativo». Al contrario, è proprio da questa riforma che uscirebbe un sistema di Regioni (diseguali fra loro per dimensione, per cultura istituzionale prevalente, per capacità operative) ridotte al rango di super-Province (abolite le storiche Province amministrative), prive della possibilità di esprimere le potenzialità dell’autonomia sul terreno legislativo. Non è del resto senza rilievo il fatto che in Italia da sempre si confrontino due «scuole» del diritto amministrativo, quella «romana», di cui Cassese è esponente di spicco, e quella «nordica», sulla scia di esponenti come Benvenuti e Pototschnig, cui corrispondono diverse sensibilità sul tema dell’autonomia. In ogni caso, il principio dell’autonomia è iscritto fra i principi fondamentali della Costituzione (art. 5).

Non si tratta, per nessuno, di negare che i diritti fondamentali dei cittadini vadano tutelati egualmente in tutto il territorio (ciò a cui provvedono già norme precise della Costituzione vigente, là dove, per esempio, demandano allo Stato di determinare i «livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale»): ma di lasciare spazio reale alle iniziative delle comunità territoriali substatali, sostituendosi al tradizionale centralismo dello Stato «napoleonico». Il cambiamento prospettato avverrebbe oltre tutto senza nemmeno il contrappeso di una vera «Camera delle Regioni» in grado di intessere un dialogo non subalterno con le istanze centrali. Ecco perché la riforma non mi pare un passo avanti, ma uno indietro.

Il Corriere della Sera, 9 maggio 2016 

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