Approvata la Riforma Boschi. Ma i No Triv fanno già paura

13 Apr 2016

​Quando il capogruppo del Pd, Ettore Rosato, finisce la sua dichiarazione di voto annunciando l’ultimo sì alle riforme costituzionali, il partito lo applaude, ma i tentativi di qualche deputato di invitare gli altri alla standing ovation non vanno in porto. I dem applaudono, seduti, senza entusiasmo. Pochi minuti ancora, e il percorso parlamentare delle riforme si chiude: 361 sì, 7 no, 2 astenuti, quasi mezzo Parlamento assente. Vota a favore solo la maggioranza. Di sì ne servivano 316, ma comunque il risultato è di poco sopra il “minimo sindacale”. Altro che il coinvolgimento di tutte le forze parlamentari, che Renzi all’inizio sbandierava come un obiettivo, tra Patto del Nazareno e corteggiamento dei Cinque Stelle.

Alla fine della seduta, le strette di mano sono tutte per il ministro delle Riforme, Maria Elena Boschi. Congratulazioni, ma nessun pathos. Tanto è vero che lei è presente, ma sceglie di non intervenire. La faccia sull’ultimo passaggio e sulla campagna referendaria che ormai è cominciata ce l’ha messa Renzi, lunedì.

E poi, quello di ieri è ormai un passaggio formale: risultato scontato, chi doveva trattare ha trattato, chi doveva rompere ha rotto. Tanto è vero che del disegno originario poco è rimasto: basti pensare che all’inizio Renzi sognava l’abolizione del Senato e che la stessa eleggibilità dei senatori, per quanto formalmente non prevista, rientra parzialmente con un sistema complesso di liste e listini.

Ci sono voluti 2 anni e 4 giorni e 173 sedute complessive. Per un totale di 6 letture, gestite dal governo tra strappi plateali e trattative “nascoste” a oltranza, tra minacce, promesse e ricuciture. E canguri, sostituzioni in Commissione e marce di protesta al Colle. Ma ora gli occhi sono puntati al futuro, al referendum costituzionale, che il premier ha trasformato in un sì o un no su di lui. In Transatlantico, nessuno parla della riforma. Perché a questo punto si aprono tre campagne elettorali. Prima di tutto, c’è il voto sulle trivelle, di domenica. Un altro referendum. Al Pd assicurano di non aver dati ufficiali sull’affluenza e si rifanno agli ultimi: un 38%, venerdì, nel pieno delle rivelazioni emerse dall’inchiesta di Potenza. Ma in realtà delle rilevazioni, per quanto “segrete”, sul tavolo del Nazareno sono arrivate: la partecipazione al voto è in crescita costante e la forbice si attesta tra il 35 e il 40%. Anche se il quorum è lontano, si tratta comunque di un numero alto, ambizioso all’inizio pure per gli organizzatori (che ora esibiscono un 45%). Vista la politicizzazione del referendum, che si è trasformato in un segnale politico a Renzi (il quale si è speso per farlo fallire) una domanda comincia a circolare: “E se tutti quelli che votano per le trivelle vanno a votare no al referendum costituzionale?”. Un ragionamento che va registrato, ma la fase è di “logoramento” come ammettono gli stessi renziani, certezze non ce ne sono. Tanto è vero che l’altro argomento che rimbalza fuori dal dibattito costituzionale riguarda la morte del co-fondatore del Movimento 5 Stelle, Gianroberto Casaleggio: “Che cosa significherà per il Movimento? Avrà un effetto di traino sulle amministrative?”. Altri dubbi, altri timori.

Nel frattempo, la propaganda si fa sentire. “Il no si spiega solo con l’odio nei miei confronti”, dice Renzi a Teheran. Un odio di cui sembra rendersi conto davvero negli ultimi giorni. Offensiva mediatica in atto, dal #Matteorisponde su Facebook al fatto che ha ricominciato a girare per l’Italia e a rispondere anche ai contestatori reali. Il Parlamento vuoto di lunedì l’ha colpito. “Sicuramente dispiace quando le opposizioni lasciano l’aula, anche perché tutti noi parlamentari siamo stati eletti e veniamo pagati per lavorare”, dice ieri sera la Boschi al Tg1. E accenna a qualcuno degli argomenti anti-casta che sarà al centro della campagna: “Con un po’ meno di politici avremo un sistema che funziona meglio”. Intanto, la minoranza del Pd chiarisce qual è la posta in gioco per non boicottare il referendum: cambiare l’Italicum.

Il Fatto Quotidiano, 13 aprile 2016

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