Così si svela il volto segreto della divina Misericordia

12 Mar 2016

Tomaso Montanari

Misericordiae vultus è il titolo della bolla con cui papa Francesco ha indetto il giubileo straordinario. Ma dove possiamo vederlo, il volto della misericordia? In quale immagine, in quale opera d’arte, in quale iconografia? La risposta è sorprendente: nell’arte sacra la personificazione della Misericordia non ha quasi avuto diritto di cittadinanza. Tutta la scena è stata occupata dalle virtù teologali (Fede, Speranza, Carità), e dalle consorelle cardinali (Prudenza, Giustizia, Fortezza, Temperanza): perché la Misericordia non è una virtù, ma, come scriveva già Dante, «è passione», cioè un moto profondissimo dell’anima. E questo ha sempre insospettito la macchina del potere ecclesiastico, che ha preferito doti meno eversive.

Esiste, certo, la tradizione iconografica delle opere di misericordia, che ha prediletto le sette corporali, raffigurandole per esempio negli ospedali (si pensi al fregio di quello del Ceppo, a Pistoia, eseguito intorno al 1525 da Santi Buglioni). In un suo recente libro ( La mia idea di arte, a cura di Tiziana Lupi) papa Francesco ha incluso una di queste serie tra gli esempi che fanno capire il suo rapporto con il figurativo: le Opere di misericordia di Olivuccio di Ciccarello, che oggi sono nella Pinacoteca Vaticana, ma che furono dipinte, nei primi anni del Quattrocento, per la Chiesa della Misericordia di Ancona.

Il papa ama questo ciclo perché qua «gli “scartati” della società si sono affermati come attori principali della rappresentazione »: un punto di vista radicalmente evangelico, che probabilmente i contemporanei di Olivuccio non avrebbero condiviso, concentrati com’erano sul ruolo non dei bisognosi, ma dei benefattori, cioè di se stessi. Il papa potrebbe trovare, sempre nei Sacri Palazzi, un esempio monumentale di questo “protagonismo degli scartati”: l’affresco in cui Beato Angelico (pittore santo e frate mendicante) esalta san Lorenzo che distribuisce ai poveri i beni della Chiesa. È somma la dignità con cui i mendicanti, gli straccioni, i bambini scalzi dell’Angelico occupano la prospettiva della basilica aulica in cui avviene il gesto eversivo: la gerarchia ecclesiastica che si spoglia delle sue ricchezze, e sul muro della cappella privata di un papa!

Questo filone iconografico tocca l’apice nella pala d’altare in cui Caravaggio concentra le Sette Opere di Misericordia,ambientandole — scrive Roberto Longhi — «all’imbrunire, in un quadrivio napoletano», con gli angeli che volano «all’altezza dei primi piani, nello sgocciolìo delle lenzuola lavate alla peggio, e sventolanti a festone sotto la finestra cui ora si affaccia una “nostra donna col Bambino” ». Grazie alla presenza di Maria — salutata fin dal X secolo come «mater misericordiae» — Caravaggio fonde l’iconografia delle Sette opere con quella della Madonna della Misericordia, colei che riunisce sotto il suo manto tutti i fedeli: un’immagine diffusissima nel Medioevo italiano, che Piero della Francesca (nel polittico di Borgo San Sepolcro, dipinto intorno al 1460) trasforma in uno spazio abitabile, una vera architettura di misericordia.

Il volto della misericordia è dunque il volto di Maria? Nell’arte italiana certamente sì: una scelta rassicurante, che pone tuttavia due problemi. Il primo è la divaricazione tra la misericordia della Madre e la verità del Figlio: quando invece il fulcro dell’annuncio messianico è che «misericordia e verità s’incontreranno, giustizia e pace si baceranno» (Salmo 84). Il secondo è che il monopolio di Maria serve a non attribuire a Gesù o a Dio Padre la visceralità della misericordia: ad evitare, insomma, una femminilizzazione di Dio che avrebbe stravolto gli stereotipi di genere.

Dopo il Concilio di Trento la Chiesa cercherà di eliminare perfino le immagini in cui è la stessa Maria ad apparire troppo umana (lo svenimento sotto la Croce, per esempio): figuriamoci rappresentare Gesù, o Dio Padre, commossi! E il punto, invece, era proprio quello: Dio è il Misericordioso perché di fronte ai figli le sue viscere di padre si muovono, e nemmeno Lui può fermarle. Ed è questa meravigliosa tenerezza di un Padre travolto dalla misericordia che sta oggi al centro della teologia di papa Francesco.

Quando apprende che il suo amico Lazzaro è morto, Gesù piange: ma inutilmente si cercherebbe il Signore in lacrime nella nostra storia dell’arte. E la traduzione italiana dei vangeli ha edulcorato, fino a travisarlo, il vasto repertorio in cui Gesù sente, letteralmente, il movimento delle proprie viscere («splancna», in greco). Nella città di Nain vede una vedova che porta alla sepoltura il suo figlio unico: senza che nessuno gli chieda nulla, Gesù si avvicina e lo resuscita, perché «le sue viscere lo avevano portato verso di lei» (Luca 7). Lo stesso avviene per i due ciechi di Gerico (Matteo 20). E quando il lebbroso gli grida: «se vuoi, puoi guarirmi », è il movimento delle viscere che trascina Gesù a rispondergli «Lo voglio, guarisci! » (Marco, 1).

Ma questo Gesù visceralmente misericordioso non ha alcun diritto di cittadinanza nell’iconografia, controllata per secoli dalla Chiesa. Eppure è Gesù stesso a suggerire alcune immagini: «Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi coloro che sono mandati a te, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come una gallina la sua covata sotto le ali, e voi non avete voluto!» (Luca 13). Ma se abbiamo, in secoli d’arte cristiana, infinite rappresentazioni di un Gesù-pellicano che si squarcia il petto per nutrire i piccoli (trasparente allegoria della Passione), non abbiamo nemmeno un Gesù-chioccia: perché un Cristo femminile, uterino, era impensabile per il potere maschile del clero.

E, allora, dove cercare? Nella bolla, Francesco cita un’immagine evangelica che gli è particolarmente cara: quella della vocazione di Matteo. Gesù sceglie come apostolo ed evangelista l’esattore delle tasse, collaborazionista dei romani: il peggio in assoluto. Il Venerabile Beda ha commentato che qui Gesù agisce «miserando atque eligendo », cioè scegliendo attraverso la misericordia: ed è questa la frase che Bergoglio ha voluto come motto papale. In un’altra occasione il papa ha parlato del suo amore per il quadro più celebre che rappresenta quella scena: la Vocazione di Matteo di Caravaggio in San Luigi dei Francesi, vero manifesto della misericordia come metodo di governo.

Ma forse l’opera che più di ogni altra può diventare l’icona di questo Giubileo (e che infatti è già stampata sulle copertine di alcune traduzioni della bolla di indizione) è il Figliol prodigo (o meglio, appunto, il Padre misericordioso) di Rembrandt (1666-69 circa). Anche perché la parabola, su cui papa Francesco si è soffermato ieri all’Angelus, potrebbe essere il vero fulcro tematico di questo Giubileo.

Sotto lo sguardo ostile del fratello virtuoso, il figlio corrotto e ingrato è tornato, lacero e miserabile. Il padre si china verso di lui, lo accoglie: lo abbraccia e insieme lo benedice, con due mani immense. Non chiede, non processa, non rimprovera: chiude gli occhi per la commozione, e nessuno osa rompere il silenzio. È stato un artista protestante, lontano da ogni clero, a fare il più bel ritratto delle viscere misericordiose di un Dio padre che è anche madre.

la Repubblica, 7 marzo 2016

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