L’omicidio di Giulio Regeni appare particolarmente atroce non solo in sé, ma anche perché mira a chiudere l’unica strada capace di costruire un dialogo autentico: quella della conoscenza disinteressata, di una condivisione fondata sulla libertà della ricerca.
È per questo che, tra i tanti modi con cui cerchiamo di trattenere la presenza di Regeni tra noi, la scelta del Museo Egizio di Torino appare carica di significato, e di futuro. In un’epoca in cui i diritti di denominazione degli spazi museali sembrano spettare solo ai marchi commerciali che donano qualche spicciolo, l’Egizio ha deciso di dedicare per sempre a Giulio Regeni una delle sue sale più importanti: quella di Deir El Medina, che accoglie le testimonianze delle professioni artigianali e operaie nell’Egitto dal XVI al XI secolo a. C.
Tra queste, il papiro che documenta il primo sciopero noto: messo in atto, nel ventinovesimo anno del regno di Ramesse III, da operai che reclamavano la paga. E così i visitatori che leggeranno il nome di Regeni sul muro di quella sala avranno una possibilità in più di vedere il filo che unisce il lavoro nell’Egitto di 3200 anni fa al lavoro nell’Egitto di oggi; di leggere, nei diritti calpestati di quegli esseri umani, i diritti calpestati dei nostri contemporanei.
E capiranno anche che esiste un nesso tra il lavoro del Regeni che studiava il movimento operaio egiziano e le vetrine del Museo Egizio. La retorica che riduce la valorizzazione del patrimonio culturale a mercificazione ci ha fatto dimenticare che l’anima di ogni museo è la comunità scientifica che vive al suo interno: ma senza di essa, un museo è un deposito di roba vecchia, o un luna park. Ed è per questo che i musei vanno misurati non solo sul numero dei visitatori, ma anche sull’innovazione della conoscenza che redistribuiscono.
I nostri musei, e oggi l’Egizio in modo speciale, possono giovare alle relazioni internazionali dell’Italia non meno della diplomazia. Il modo più proficuo perché ciò avvenga non è utilizzarli come set televisivi per le conferenze stampa dei leaders in visita (un uso improprio, che porta a incidenti come quello delle statue coperte ai Musei Capitolini), ma aiutarli ad essere istituti di ricerca aperti agli studiosi dei paesi del Mediterraneo.
La grande partita della pace non si gioca solo sui tavoli delle cancellerie: il lavoro di Regeni, come quello dei ricercatori dell’Egizio, è capace di fare incontrare, su un terreno libero per definizione, le coscienze di due paesi. È per questo che fa paura, ed è per questo che dobbiamo alimentarlo.
L’International Council of Museums dice che ogni museo persegue scopi di «studio, educazione e diletto». Etimologicamente studio vuol dire amore, educazione è tirar fuori l’umanità chiusa in ogni uomo, il diletto è la dolcezza che ci avvince alla vita: è questo il tessuto che la morte di Giulio Regeni ha lacerato, ed è attraverso il lavoro che altri giovani ricercatori italiani ed egiziani continueranno a fare, anche in quella sala, che quel tessuto deve continuare a unirci.
la Repubblica, 14 febbraio 2016
Sono rimasto veramente commosso dalla pietas, dall’umanità e dalla gentilezza di cui è permeato questo articolo di Tomaso Montanari, al di là del messaggio etico, politico e culturale che esso veicola. Grazie.