L’economista Reich: “Non contate sul traino Usa, siamo a rischio recessione”

29 Gen 2016

New York «Per uscire da questa nuova crisi tutti puntano sull’effetto di traino dell’economia americana, quella che appare più in salute. Ma il nostro sistema è minato dagli squilibri crescenti nella distribuzione del reddito che, al di là di tutte le questioni di giustizia sociale, incidono in misura significativa anche sullo sviluppo del reddito nazionale. Nei prossimi mesi vedremo un significativo rallentamento e non escludo che alla fine del 2016 l’economia americana entri in recessione».

Celebre economista liberal dell’università di Berkeley, in California, ministro del Lavoro Usa durante la presidenza di Bill Clinton, Robert Reich per 25 anni ha assecondato, con le sue analisi, una crescita basata sui meccanismi della globalizzazione e sull’automazione dei processi produttivi, proponendo solo di attutire l’impatto di questa evoluzione naturale del sistema economico sul mercato del lavoro con reti di protezione sociale e una migliore formazione professionale. Da qualche tempo, però, Reich si è convinto, insieme ad altri suoi colleghi, che quella della polarizzazione dei redditi è diventata una grave patologia del capitalismo e ha cominciato a battersi per una sua profonda riforma.

Oggi lei va più in là: sostiene addirittura che questo tipo di capitalismo non solo rende i ricchi ancora più ricchi e i poveri più poveri, ma rischia addirittura di portare alla recessione. Perché?
«Con i nuovi problemi che emergono in Europa, la Cina che rallenta bruscamente, Brasile e Russia in crisi profonda, l’America non può più puntare su una crescita basata sulle esportazioni, tanto più che il dollaro si è rafforzato in modo sostanziale. Lo sviluppo dovrebbe essere sostenuto dalla domanda interna che per il 70 per cento è costituita, come lei sa bene, dalla domanda dei consumatori, cioè delle famiglie. Ma i consumatori nel 2016 non avranno abbastanza reddito disponibile per una crescita a pieno regime: il motore girerà a due cilindri, e questo per colpa dell’aumento delle diseguaglianze. Guardi i dati: il reddito medio degli americani, corretto al netto dell’inflazione, è inferiore del 4 per cento ai livelli del 2000. Cala molto anche la retribuzione media dei giovani, compresi i laureati. Quindi rallenta anche la formazione delle famiglie: più gente che rimane in casa con i genitori, meno matrimoni, meno figli, meno richiesta di nuove case, meno domanda di beni e servizi».

Recessione, allora?
«Sicuramente un forte rallentamento. La recessione è una forte possibilità, le attribuisco un livello di probabilità che va da 30 al 50 per cento».

Nell’intervista che facemmo sei mesi fa, poco prima dell’uscita del suo libro “Come salvare il capitalismo”, pubblicato in Italia da Fazi, lei concluse dicendo che quella di definire nuove regole non per trasferire reddito dai ricchi ai poveri, ma per andare verso una distribuzione più equa già nella fase di produzione della ricchezza non è solo una sfida sociale ed economica: è una sfida per la tenuta della democrazia. 

«Be’, per convincersene basta dare un’occhiata alla campagna elettorale americana per la Casa Bianca. Lasci perdere per un attimo le posizioni politiche di ognuno di noi: io condivido gran parte delle proposte di Bernie Sanders e di certo non apprezzo i proclami, le idee e lo stile bombastic di Donald Trump, l’equivalente americano di Berlusconi. Ma oggi loro due sono i grandi fenomeni della campagna elettorale perché, in modi diversi, sono i campioni dell’antipolitica. Fanno appello gli stessi elettorati, di destra e sinistra: un ceto medio sfibrato dal continuo calo del suo potere d’acquisto che ha perso ogni fiducia nell’establishment, in chi gestisce un sistema, quello attuale, che non tiene più».

Certo, un europeo fatica a capire come un miliardario di New York che ama ostentare la sua ricchezza fino a costruire grattacieli dorati possa diventare il campione di contadini e operai del Mid-West o del profondo Sud americano.
«Esattamente per questo: i colletti blu conservatori tifano Trump perché vedono in lui non il miliardario ma una specie di “Superman” che promette di demolire l’establishment, compreso quello di Wall Street. Che, infatti, lo teme, ma non sa più cosa contrapporgli. All’estremo opposto, lo scenario nel quale si muove Sanders è molto simile. Sembrava un rivoluzionario destinato a raccogliere briciole nel mercato della politica e invece la sua proposta di cambiamento radicale, una vera rivoluzione politica, sta ricevendo consensi a valanga nel mondo democratico, mettendo in pericolo la candidatura della Clinton che propone continuità, pur con qualche miglioramento, rispetto all’era Obama. Gli elettorati sono molto diversi, ma lo scontento, il rifiuto dell’establishment, è lo stesso nel campo democratico come in quello repubblicano».

Eppure il bilancio di Obama non è poi così negativo. Ha tirato fuori il Paese dalla Grande recessione del 2008-2009, ha evitato una nuova depressione, ha riportato il mercato del lavoro quasi a una condizione di piena occupazione coi disoccupati ridotti al 5 per cento.
«I progressi ci sono stati, non c’è dubbio. Ma dietro quei dati del lavoro così positivi, come i quasi 300 mila posti in più a dicembre, c’è la realtà di mestieri sicuri e ad alto reddito che spariscono, sostituiti da lavori assai più precari e pagati assai meno. Molti americani sono addirittura usciti dal mercato del lavoro e molti degli impiegati di quelle statistiche hanno solo un lavoro part time. Il reddito medio non cresce o cresce di poco rispetto all’anno precedente mentre il confronto con 15 anni fa, come le dicevo prima, è deprimente. È per questo che c’è tanto scontento in giro, nonostante dati statistici così positivi».

Lei si è convinto, e lo ha scritto nel suo libro, che l’aumento delle diseguaglianze in Occidente non dipende solo da fattori oggettivi come la globalizzazione che fa entrare nel mercato la forza-lavoro dei Paesi a basso reddito. È cambiata soprattutto la bilancia del potere politico: più influenza dei ricchi, della finanza, delle grandi imprese contrarie a riforme destinate ad avere un impatto sulla distribuzione del reddito. Una evoluzione sua e di qualche altro esponente della cultura liberal o vede un movimento più ampio nella scienza economica?
«All’ultimo meeting dell’associazione degli economisti sono stati presentati ben 90 paper focalizzati sulle diseguaglianze e sui loro effetti: studi focalizzati sul circolo vizioso tra accumulazione della ricchezza e influenza politica sul Congresso. Qualcosa di profondo sta cambiando anche tra gli economisti mainstream ».
Corriere.it  29 gennaio 2016

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