“La Costituzione è l’insieme delle regole che i popoli si danno quando sono sobri, a valere per quando saranno ebbri”. La massima enucleata dalle riflessioni di Calamandrei e Zagrebelsky non sembra condizionare la strategia di Matteo Renzi, che individua nel completamento del progetto di riforma costituzionale cristallizzato nel ddl Boschi la conditio sine qua non da cui dipende non solo la prosecuzione della sua esperienza di governo, ma financo la sua permanenza in politica.
“Sulla riforma costituzionale ci metto la faccia”, scandisce perentorio il giovane premier. “Sulla riforma costituzionale ci mettiamo la faccia”, ripetono disciplinati i protagonisti del cambia – verso.
A prescindere dagli obiettivi da perseguire nel breve termine (le difficoltà del PD nella selezione delle candidature per le amministrative in programma la prossima primavera giustificano il tentativo di spostare l’attenzione dell’opinione pubblica sulla campagna referendaria), l’operazione diretta a trasformare il referendum ex art. 138 Cost. in una sorta di giudizio ordalico tra sostenitori e oppositori del Presidente del Consiglio proietta una serie di ombre lunghe sul futuro del Paese: ombre lunghe che involgono sia il significato estremo che tale operazione assume, sia le modalità che ne stanno caratterizzando l’attuazione.
Ai commentatori più attenti non è sfuggita l’anomalia rappresentata da un Esecutivo direttamente impegnato in un percorso di revisione della Carta Fondamentale, materia tradizionalmente dipendente dall’iniziativa parlamentare; non è sfuggita la pericolosa condizione di un Parlamento di fatto costretto dalla continua minaccia del ricorso al voto di fiducia ad approvare nottetempo una riforma destinata a rivoluzionare gli equilibri sui quali è imperniata l’attuale forma di governo; non è sfuggita la sostituzione di quei rappresentanti del PD nella commissione affari costituzionali del Senato ritenuti non abbastanza funzionali ai desiderata del segretario – premier; e non è sfuggito soprattutto il conflitto sofocleo in cui sono venuti a trovare i senatori democratici, a cui il Presidente del Consiglio ha di fatto imposto, fin dal suo discorso di insediamento, di chinare il capo dinanzi alla rottamazione della loro camera di appartenenza.
“Sulle riforme ci metto la faccia”: tra pose gladiatorie e toni da ultima spiaggia, è la logica stessa del processo di revisione in atto a gettare sulla strategia di Renzi quelle ombre lunghe a cui si è poc’anzi fatto cenno. La distorsione del significato del referendum previsto dall’art. 138 – da strumento utile alle opposizioni per chiamare i cittadini ad esprimersi sulle modifiche della Costituzione approvate dalla sola maggioranza, a celebrazione collettiva delle scelte del Governo -, l’individuazione delle riforme costituzionali come tema su cui misurare il consenso dell’Esecutivo, l’elogio dell’efficientismo dei parlamentari che “votano le riforme anche di notte” fanno emergere la sconfortante inattitudine delle regole contenute nel ddl Boschi a delineare, astraendosi dalle logiche di parte, i principi ispiratori delle dinamiche del gioco democratico, a fornire un presidio al corretto funzionamento delle istituzioni per i momenti di ebbrezza collettiva che verranno a manifestarsi nel corso della storia.
“Sulle riforme ci metto la faccia”: o innovatori, o conservatori; o col premier, o contro il premier. L’ordito normativo prodotto dal giudizio ordalico del referendum sulla figura del Presidente del Consiglio sarà intriso non dalla sobrietà propria di un progetto condiviso dalle varie anime del Paese, ma dalla ubris di una classe dirigente che, avendo individuato in un brutale scontro generazionale il momento iniziale della sua scalata al potere, rinnova la propria legittimazione a governare attraverso l’incessante ricerca di nuovi conflitti.
“Sulle riforme ci metto la faccia”: ribaltando le riflessioni di Zagrebelsky e Calamandrei, le regole contenute nel ddl Boschi verranno stabilite da un popolo reso ebbro dal clima da scontro finale che farà da sfondo al giudizio ordalico, per valere anche nei giorni in cui quel povero popolo avrà recuperato la sobrietà perduta.
(*) Coordinatore del Circolo Libertà e Giustizia di Cagliari
Renzi è solo la punta dell’iceberg. Mineo spiegò bene e tempestivamente il dispiegarsi del ricatto che ha preceduto e accompagnato tutte le fasi illustrate nell’articolo: Renzi legò subito l’assenso allo stravolgimento della Costituzione alla sopravvivenza della legislatura e implicitamente alla poltrona dei parlamentari. In quello che Mineo definì “corridoio dei passi perduti”, i parlamentari piddini doppiamente ricattati dal Capo del Governo e dal segretario del loro partito, che sciaguratamente sono la stessa persona, si aggiravano con l’incubo delle elezioni che, come la grande mietitrice, potevano recidere il filo della loro esperienza politica pagata a caro prezzo: DECINE DI MIGLIAIA DI EURO PER ESSERE COLLOCATI IN POSIZIONE TALE DA AVERE GARANTITA L’ELEZIONE IN UNA LISTA IMPORCELLATA DEL PD. Se non ricordo male, la tariffa era di 25.000 euro e questo la dice lunga sul perché il PD in 8 anni non avesse mai fatto nulla di serio per l’abolizione del porcellum, rivelatosi una vera cuccagna sia per la possibilità di nominare a proprio piacimento parlamentari subordinati ai vertici di partito e sia per la miniera d’oro che garantiva grazie alla compravendita (vera e tangibile e non metforica!) degli scranni parlamentari, un vero scandalo che grida giustizia al cielo e che guarda caso non è finito sulle prime pagine di tutti i giornali per tutto il tempo necessario ad ottenere l’allontanamento dalla politica (e possibilmente dalla nazione!) di tutti i loschi figuri coinvolti in questo vergognoso caporalato. Che io sappia, nessun magistrato se ne è occupato; nessun telegiornale, nessun Presidente della Repubblica.
Questi figuri, passivi acquirenti di scranni, sono colpevoli quanto e più di Renzi, e più di loro sono colpevoli coloro che continuano a sostenerli nonostante e a non schifarli nonostante tutto quello che è successo e che purtroppo succederà.
Che io sappia,solo Mineo ha parlato di questo scandalo a luci rosse, rifiutandosi di pagare, come se ciò bastasse.Quando ci si rende conto che un partito è ridotto in quelle condizioni e di essere finiti in MAFIA PARLAMENTARE che ha preceduto e supera in gravità lo scandalo di MAFIA CAPITALE, una persona se ne deve andare immediatamente da quel partito scuotendosi i calzari, mentre Mineo ci è rimasto astenendosi talvolta dal voto e talaltra votando cose orribili, rivolgendo sempre agli altri partiti parole più lapidarie di quelle riservate al suo PD nonostante fosse proprio lui il protagonista di un delle epurazioni in Commissione narrate in questo articolo, alla faccia della libertà di mandato e del principio di rappresentanza, violati da un partito ormai feudale articolato in vassalli, valvassini, valvassori e servi…… della gleba o magari paria: i semplici votanti.
Sarebbe ora di riesumare l’etica e di sbarazzarci non del Senato ma delle primarie più ridicole del mondo, che danno il Paese in mano a un tizio scelto dai passanti, molti dei quali di nazionalità extraeuropea.