Le leggi e i valori. Contributo al dibattito sul multiculturalismo

16 Gen 2016

Roberta De Monticelli Consiglio di Presidenza Libertà e Giustizia

Un’interessante discussione sul multiculturalismo è stata aperta sul Corriere della Sera da un intervento di Ernesto Galli Della Loggia (Integrare senza sensi di colpa, Corsera 10/01/16), la cui tesi fondamentale è che integrazione e multiculturalismo sono incompatibili, dato che integrarsi vuol dire per un immigrato assorbire “il sistema di valori, di regole e di comportamenti socialmente ammessi” che costituiscono la cultura del Paese ospitante. Risponde Carlo Rovelli con una frizzante ventata di positivistico buonsenso: Le leggi (non i valori) regolino l’accoglienza (Corsera 13/01/15).

Certamente ci sono fra tutti noi molti conflitti di valore, e inoltre non ci sono solo conflitti, ma anche differenze non conflittuali, come lo sono quelle relative alle tradizioni linguistiche, estetiche, dottrinali, tecniche, gastronomiche, agli usi e costumi diversi ma non reciprocamente offensivi. In entrambi i casi – conflittualità e semplice diversità – integrazione vuol dire semplicemente rispetto delle leggi, condizione necessaria ma anche sufficiente al rispetto reciproco. “Voglio vivere in una società in cui ciò che non è lecito è sancito in maniera chiara e trasparente dalla legge”, scrive Rovelli. E chi non vorrebbe. Peccato che questa non è purtroppo la società italiana, dato che l’Italia (fonte Transparency International) è il paese europeo con il maggior numero di leggi e il più alto tasso di illegalità (e non certo per colpa dei migranti!). Ma perché non concederci il lusso di un approfondimento su questo tema cruciale, le leggi e i valori? Galli Della Loggia ribatte con asprezza sulla pagina a fianco: quello di Rovelli è “un multiculturalismo da vip di lounge aereoportuale”, “l’idillio buonista di tante élite intellettuali dell’Occidente”, autoreferenziale e autocompiaciuto. (Tra le leggi e i valori esiste una corrispondenza nelle società democratiche). Il titolo riassume la tesi centrale: “Le leggi di una qualunque società, infatti, derivano da null’altro che dai suoi valori”. E questo almeno è, a prima vista, innegabile.

Ora, questo dialogo fra un fisico e uno storico potrebbe far da spunto a un’operetta morale di stile leopardiano, che alla nostra tradizione culturale, tanto per restare in tema, si attaglia anche nella sua gamma sentimentale (l’ottimismo cosmopolitico contro il pessimismo tradizionalista). Manca una voce. Quella dell’etica pubblica. Che è figlia della nostra ragione, e dei due secoli che stanno fra i Principi dell’’89 e l’’89 del crollo del muro di Berlino. E la sua prima domanda è: com’è che è l’Impero Romano, nell’affresco di Rovelli, “l’esempio principe di società multiculturale, tollerante delle diversità”? Va bene il Diritto Romano, che quanto a diritti umani forse non è proprio l’ultimo grido, ma insomma fra Giustiniano e Montesquieu, o fra Montesquieu e Ronald Dworkin, qualcosa mi pare abbiamo capito che sembra un peccato ignorare, perfino in un dialogo leopardiano. Il primo principio della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo è del 1948, e sembra riecheggiare quella del 1789 tranne per una differenza: la parola dignità. “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti”. In questa parola brilla la scintilla di consapevolezza nuova che due secoli di esperienza, di speranze e di orrori hanno finalmente fissato in un concetto chiaro: pari dignità. Eguaglianza in dignità e perciò in diritti. “Dignità” è anche il primo dei sei valori intorno a cui si organizza la Carta dei Diritti dell’Unione Europea. Gli altri sono Libertà, Eguaglianza, Solidarietà, Cittadinanza e Giustizia. Sono tutti nomi di valori. Danno il loro contenuto alle norme delle costituzioni europee post-belliche, fra cui la nostra (antecedente alla Dichiarazione). La loro specificità è precisamente quella di assorbire, alla base della legislazione e come sua norma suprema, la consapevolezza di ciò che ci dobbiamo gli uni agli altri. Stretti fra l’alfa del pari valore intrinseco (dignità) di tutte le persone, fondamento di ciò che è dovuto a ciascuna di loro, e l’omega di ciò che rende possibile la convivenza delle persone in società (giustizia) troviamo i valori dell’aurora della Rivoluzione Francese: Liberté, Egalité, Fraternité… e la storia drammatica della civiltà moderna. E il nome del valore che più direttamente rinvia ai doveri e alle virtù della cittadinanza attiva, e dunque alla parte dell’etica definita da tutti questi valori: l’etica pubblica.

Che cosa abbiamo dunque imparato a proposito di leggi e valori? Questo: che la parte essenziale di ciò che è dovuto a ciascuno è proprio il libero esercizio del suo proprio ethos, e non del nostro, nei precisi limiti in cui è compatibile con il rispetto dell’eguale dignità dell’ethos altrui. A ciascuno è dovuta dunque la massima tutela e protezione della libertà di vivere e morire secondo ciò che ritiene sia la vita buona o felice. Questo è fra l’altro iscritto nel principio di laicità dello Stato, che non è semplice neutralità, ma garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale. La laicità è un valore, di livello etico, cioè universale: dunque non è vero che le leggi non hanno a che fare coi valori, e qui Rovelli ha torto. Ma il valore della laicità, come quelli della dignità personale e della giustizia, è precisamente quello di rendere a ciascuno, e non a “noi” la speranza che abbia un po’ di senso, un po’ di valore anche la sua vita (e non solo la nostra). E quindi sarebbe un controsenso etico predicare l’integrazione come fine del multiculturalismo. E qui Galli Della Loggia ha torto. Le questioni di valore d’altra parte sono spesso questioni di vita o di morte, perché coinvolgono l’identità morale di ciascuno di noi, le ragioni della propria vita, quelle in grazia delle quali si può anche decidere di sacrificarla. La propria, non l’altrui. Perché l’altra cosa che abbiamo imparato è precisamente chenon per questo “tout va bien” e qualunque ethos è accettabile, ma soltanto quelli che sono compatibili precisamente con la pari dignità degli altri, con il rispetto loro dovuto. Ciò che vincola e insieme libera alcuni deve essere compatibile con ciò che è dovuto a ciascuno. E questo è precisamente il limite che chiamiamo legge, lo spirito delle leggi. Perciò riferendoci ai principi dell’etica e della politica pubbliche ha poco senso parlare dei “nostri” valori o della “nostra” cultura. A meno che il “noi” non sia quello della nostra umanità. Allora questa “nostra cultura” coincide semplicemente con la nostra ragione, che include la nostra sensibilità e la nostra cognizione del dolore e dell’orrore. Insomma, della storia.

Sento già l’obiezione – questa è filosofia, la realtà è altra cosa. Non credo. La Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha bocciato la normativa italiana (introdotta nel 2009 dall’allora Ministro dell’interno Maroni e dal Ministro della Giustizia Alfano) sul reato di clandestinità, in base a considerazioni (sulle modalità di espulsione previste) che rinviano precisamente al rispetto della dignità della persona del migrante. Dunque ha bocciato una legge sul fondamento ultimo di un valore (universale). Il 28 aprile 2014, il Parlamento ha conferito delega al Governo per la depenalizzazione del reato di clandestinità, entro 18 mesi dall’entrata in vigore della legge stessa. A termine scaduto, il Governo ha deciso di rinviare l’attuazione della legge, non perché Alfano è oggi Ministro dell’Interno, ma perché noi cittadini “non capiremmo”, poveretti. Dunque una norma vincolante è pacificamente violata dallo stesso proponente, in base a una zelante ancorché non richiesta difesa dei “nostri” valori. A proposito di imperio della legge. C’è un fatto che mostri meglio di questo che le buone leggi corrispondono a valori universali, e che tutto ciò che è incompatibile con questi diventa presto o tardi sfacciata – e impunita – contorsione logica, giuridica ed etica?

Nata a Pavia il 2 aprile 1952, è una filosofa italiana. Ha studiato alla Normale di Pisa, dove si è laureata nel 1976 con una tesi su Edmund Husserl.

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