Il fronte del No/Una stagione per la democrazia

14 Gen 2016

Il comitato per il no alla riforma costituzionale Renzi-Boschi ha dato il via alla propria campagna nel giorno in cui il voto della Camera ha concluso la prima deliberazione ex art. 138. Una assemblea molto affollata, tanto da costringere gli organizzatori a cercare una sala più grande. E ai piani alti del Pd qualcuno ha mugugnato contro la Boldrini, colpevole di aver autorizzato l’uso della sala nelle stesse ore in cui l’Aula votava. Evidentemente, un sassolino nella strategia comunicativa del capo. Saranno pure i cittadini a decidere sulla riforma. Ma evitiamo che discutano o pensino troppo, prima di votare. Potrebbero confondersi.

Il referendum sulla riforma è ormai certo, perché la maggioranza rimane lontana dai due terzi dei componenti sia alla Camera che al Senato. Solo per chiarezza, sarà utile ribadire che il referendum è strumento dato dalla Costituzione a chi si oppone alla riforma, e non a chi la approva. Quindi la trasformazione in un plebiscito sullo stesso Renzi è l’ennesima forzatura cui assistiamo.

«Se perdo vado a casa» è minacciare la crisi. Renzi vuole sequestrare domani la libertà di voto degli italiani come ha sequestrato ieri la libertà di voto dei parlamentari. E il primo obiettivo di chi si oppone alla riforma deve appunto essere ridare agli italiani la libertà di voto. Come? Anzitutto con la richiesta di referendum da parte dei parlamentari di opposizione (almeno 126 deputati). Ma ancor più facendo partire una stagione di referendum abrogativi contro le leggi di Renzi, dalla scuola al Jobs Act, all’Italicum. La migliore risposta alle pulsioni plebiscitarie del leader viene da centinaia di migliaia di firme su quesiti abrogativi delle sue leggi.

Tra queste, l’Italicum merita una menzione particolare. Non solo per l’incostituzionalità che con certezza deriva dalla inosservanza dei principi posti dalla Corte costituzionale nella sentenza 1/2014, quanto alla rappresentatività delle assemblee elettive ed alla libertà di voto. Ma ancor più perché in sinergia con la riforma costituzionale determina un favore per governi a vocazione minoritaria.

Governi fondati su una ridotta base di consensi reali perché espressione di una forza politica minoritaria cui solo gli artifici del sistema elettorale consegnano i numeri posticci di una maggioranza parlamentare priva di qualsiasi contatto con la realtà.

E quei numeri posticci consegnano le chiavi di un potere non più limitato da un efficace sistema di checks and balances. Questo esito viene dal combinato disposto di premio di maggioranza e ballottaggio senza soglia, con il mantenimento di quorum per gli organi di garanzia che perdono sostanzialmente di significato.

Si indebolisce la stessa rigidità della Costituzione, visto che alla forza politica minoritaria si garantisce nella camera politica una maggioranza ampiamente sufficiente per la revisione. Rispetto alla forza politica vincente, quale che sia il consenso ricevuto, perdono largamente di significato le garanzie della rigidità di cui all’art. 138. Con una maggioranza garantita alla Camera e una manciata di senatori sindaci e consiglieri regionali si dispone della Costituzione.

Il punto grave è che il governo a vocazione minoritaria non viene da un fortuito ed eccezionale concorso di circostanze, che potrebbero occasionalmente verificarsi in qualunque contesto di sistema elettorale o modello costituzionale. Il favor per il governo a vocazione minoritaria si mostra invece come elemento strutturale del modello messo in campo, e come esito normale e consapevolmente voluto dal costituente di oggi, per l’obiettivo — dichiarato — di avere un vincitore certo la sera del voto. Questo perché si traducono acriticamente i luoghi comuni del bipolarismo maggioritario in un sistema che bipolare più non è. I passatisti veri, che non capiscono il nuovo, sono a Palazzo Chigi.

Non c’è modo di ricondurre tutto questo a una qualsivoglia forma di continuità con la Costituzione repubblicana. Nessuno in Assemblea Costituente avrebbe mai pensato che la filosofia della governance repubblicana fosse consegnare le chiavi del potere a una forza politica di minoranza. Si assumeva come punto di partenza indispensabile per governare che ci fosse un consenso reale nel paese. Per questo era previsto che la cd legge truffa trovasse applicazione solo con il conseguimento di una maggioranza assoluta di voti, in un tempo che vedeva la partecipazione degli elettori superare il 90%.

Oggi, è la stessa Costituzione a uscirne indebolita. E la patologia diventa normalità, regola.

Ci aspettano tempi difficili. Dalla crisi economica ai nuovi rapporti di forza tra nord e sud del mondo, al terrorismo endemico, alla difficile convivenza tra etnie e culture assai diverse imposta da migrazioni di interi popoli. Saranno tempi non meno difficili degli anni della ricostruzione post-bellica. Pensare di affrontarli riducendo il potere in poche mani è illusorio. È politicamente sciocco, oltre che in piena rottura con la Costituzione vigente. Bisogna capovolgere questo impianto che può solo fare danno al paese. A questo serve la stagione referendaria di partecipazione democratica di massa che andiamo ad aprire.

il manifesto, 12 gennaio 2016

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