Landini risponde al Gruppo Giovani LeG, di Mattia Sacco

19 Nov 2015

Landini, a che punto si trova il progetto di “Coalizione Sociale”? Quali sono le sostanziali differenze rispetto alle precedenti e fallimentari esperienze che hanno caratterizzato la sinistra degli ultimi vent’anni? 

La Coalizione sociale è una scommessa che avrà un buon esito se riuscirà a radicarsi e a dimostrare sul territorio che è possibile riaggregare quella consistente parte della società che la crisi ha disperso e messo in competizione. A partire dal mondo del lavoro e dalla sua condizione. La coalizione sociale non può essere una nuova sigla tra tante o uno strumento istituzionale. Questo è ciò che la differenzia da altre esperienze più o meno recenti. E’ un inedito tentativo di protagonismo politico che si fonda sulla partecipazione di singoli e gruppi che mettono in comune le proprie esperienze e capacità per ridare alla politica la possibilità di non essere semplicemente la somma di talk show e comitati elettorali.

Come sta la sinistra?  

Penso che più che in valori elettorali lo stato di salute della sinistra italiana vada misurato in termini di valori, di programmi e di efficacia. E’ soprattutto da questi punti di vista che ne risalta la scarsa consistenza. Per dirla in battuta, se varare una legge che permette la libertà di licenziare è di sinistra – come afferma il governo Renzi ­ allora io non sono di sinistra… o non so più che voglia dire. E forse non lo sanno nemmeno più, visto quel che hanno davanti ai loro occhi, milioni di persone che non vanno più a votare perché non vedono più alcuna distinzione chiara di pratiche tra destra e sinistra. Come è il caso dei tanti giovani lavoratori precari, disoccupati e senza reddito la cui condizione non è cambiata sotto governi di destra, di sinistra o “tecnici”. Viviamo una situazione talmente drammatica dal punto di vista della condizione sociale e dello scollamento tra paese reale e paese ufficiale che non credo basti un’alleanza o una riaggregazione politica o elettorale tra ciò che già esiste per sanare il deficit di rappresentanza e ricostruire una sinistra che risulti credibile e dia un messaggio di speranza alle milioni di persone che ne avrebbero bisogno. Credo che servano soprattutto pratiche coerenti e una ricostruzione culturale di senso.

Alla luce della disoccupazione in atto, pensa che l’impostazione lavorista riesca tuttora ad attecchire sul tessuto sociale, o è necessario un repentino cambio di rotta; ad esempio puntando maggiormente su proposte come il Reddito Minimo Garantito?

Sinceramente non vedo in giro grandi impostazioni lavoristiche; anzi, il lavoro sembra essere considerato un “residuo” del passato, sia in termini di peso economico che in termini di rilevanza politica. Semmai se ne parla come dramma sociale, nel senso che la sua mancanza provoca un impoverimento generale della società, mentre si sottovaluta quanto impoverimento generale sia causato dal fatto che il lavoro – quando c’è – in molti casi è diventato povero egli stesso, nel senso che sempre più persone che hanno un’occupazione anche stabile, hanno stipendi a cavallo della soglia di povertà. Nemmeno nel sindacato mi sembra prevalgano impostazioni lavoriste: i sindacati confederali da tempo hanno edulcorato di molto la cultura della centralità del lavoro e quasi più nessuno sostiene – con i fatti, non a parole – che la base della cittadinanza sia il lavoro. In questo panorama mi sembra ovvio che si parli sempre di più di centralità del reddito, piuttosto che centralità del lavoro. E credo sia giusto prendere in considerazione la necessità di garantire comunque un reddito anche a chi non ha un lavoro, visto che viviamo in un’epoca di disoccupazione di massa. Un reddito minimo garantito servirebbe anche a combattere la concorrenza tra lavoratori e a diminuire il potere di ricattabilità che gli imprenditori hanno sulle persone mettendole in competizione tra di loro; una competizione che di solito è al ribasso in termini di salari e di diritti. Ma, al di là della difficoltà in termini di spesa – che ovviamente deve essere a carico della fiscalità generale ­ di conquistare un reddito minimo garantito per tutti, credo che la piena occupazione costituisca ancora un valore da perseguire, una battaglia contro un sistema di potere che si perpetua selezionando la distribuzione del lavoro e mettendo le persone l’una contro l’altra. Una battaglia che va fatta a partire dalla redistribuzione del lavoro che c’è, riducendo gli orari e cambiando i modelli produttivi in cui molti sono precari o disoccupati mentre pochi sono costretti a lavorare troppo, fin oltre i propri limiti fisiologici o mentali.

Non crede si corra il rischio che questa “Coalizione” possa essere interpretata come un tentativo da parte dei Sindacati e dei partiti minoritari di sinistra , ormai logori e autoreferenziali, di riciclarsi, per non perdere i presunti privilegi di cui sono accusati? Questa “Coalizione”, in prospettiva, ha intenzione di strutturarsi? Potrebbe rappresentare un trampolino di lancio per una nuova classe dirigente della sinistra?

La Coalizione sociale nasce dall’esigenza di riunificare ciò che la crisi e la politica hanno e stanno dividendo. Per noi è una necessità che parte dallo specifico sindacale, dal fatto che per rappresentare il lavoro non bastano più gli strumenti che abbiamo, in un’epoca di frammentazione e dispersione sociale. Per dirla nel modo più semplice possibile, abbiamo verificato in questi anni quanto le divisioni pesino e quanto intrecciati siano i problemi. Faccio un esempio: di fronte ai problemi che l’Ilva ha provocato a Taranto ­ in termini ambientali, per la salute e per i lavoratori stessi – bisogna affrontare la situazione coinvolgendo tutti i soggetti che sono stati colpiti dalla gestione di quell’azienda; in altri termini, il risanamento di quel territorio non può prescindere dal risanamento di quella fabbrica, i problemi dei cittadini di Taranto sono gli stessi degli operai di Taranto e qualunque futuro possibile passa solo attraverso uno sforzo comune che costruisca insieme la riconversione di quella fabbrica e di quel territorio. Questo esempio mi serve anche a precisare il peso politico della coalizione: essa avrà un futuro solo se partirà dai territori – creando mutualità e progetti condivisi e praticati – e non sarà un semplice assemblaggio di forze politiche o associazioni, cioè di quello che tu chiami “classe dirigente della sinistra”. Oggi siamo in questa fase propositiva, del tutto embrionale. Dovremo presto verificare se questo percorso funziona e produce aggregazioni sociali che rispondono ai guai provocati dalla crisi e attraverso queste risposte diventano un “fatto politico” con cui tutti devono fare i conti. Il discorso della rappresentanza politica o elettorale non è ancora mai stato posto se non per precisare che non è in campo.

Cosa ha intenzione di fare da grande Maurizio Landini? Il Sindacalista, il Leader Politico o pensa che una non debba necessariamente escludere l’altra?

Mi occupo dei problemi del lavoro da quando ho iniziato a lavorare come apprendista saldatore a 16 anni. Qualche anno dopo ho iniziato a fare il sindacalista. Credo che questo rimanga il mio orizzonte anche in futuro.

(*) Mattia Sacco fa parte del Gruppo Giovani LeG di Roma

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