Sul “dolore di essere italiani”

13 Ott 2015

Roberta De Monticelli Consiglio di Presidenza Libertà e Giustizia

Lettera-recensione a Giulio Savelli

Questa è una sorta di recensione in forma di lettera di un libro, il cui autore ha nome Giulio Savelli, che mi è capitato in mano e ho trovato carico di senso, perché corrisponde pagina dopo pagina perfettamente al suo titolo, Il dolore di essere italiani. Credo che la cognizione del valore si fondi sulla cognizione del dolore, e poiché questo libro parla di mali pubblici, mi è parso giusto condividere sul Lab una riflessione che virtualmente è già un confronto. Uscirà infatti fra poco un altro libro in cui anch’io, a partire da sentimenti molto vicini a quelli espressi dall’autore, tento però di farne la semplice porta d’accesso ai fondamenti di una teoria dei valori – che aspira evidentemente a trascendere l’orizzonte nazionale. Ma la meditazione di Giulio Savelli mi ha istillato alcuni dubbi – che in questa lettera-recensione provo ad esprimere. 

“In cosa consiste dunque il dolore di essere italiani? Un accenno di risposta sembra baluginare, nel titolo, quasi identico, di due libri molto diversi: uno di Sebastiano Vassalli, Gli italiani sono gli altri; l’altro di Francesco Cossiga, con Paolo Chessa,Gli italiani sono sempre gli altri…. Ma la sua verità più profonda consiste nel suggerire che all’individualismo e alla compulsione autocritica corrispondeuna scissione interna all’identità italiana. Questa scissione è tutta interiore, si manifesta in un giudizio… verso la comunità nazionale, e copre non tanto una contraddizione e un difetto morale – vedere il fuscello nell’occhio altrui e non il trave nel proprio – quanto un dolore individuale e privato: non voler essere ciò che si è” (p. 6).

Queste poche righe non rendono giustizia alla complessa opposizione fra il carattere e l’ideale, fra il fatto e il sogno, fra “italiani” e “ant-italiani” che attraversa – lei dice – il cuore e l’identità di ognuno di noi. Ma danno solo un punto di partenza a questa riflessione.

Se non sbaglio lei è più giovane di me, eppure sembra talmente addentro alle vicende di questa mia nefasta generazione, la peggiore forse in tutta la storia della Repubblica, almeno per numero e influenza pubblica dei suoi esponenti… e naturalmente già questo esordio le confermerà la giustezza delle sue analisi sul dolore e il senso di “colpa irredimibile di élite inadeguata” degli “anti-italiani”.

Per andare subito al dunque: chi parla (io) sembra totalmente conforme al modello del moralista astratto che vive solo per opposizione alla normalità trasgressiva dell’”italiano”: così “particulare”, indifferente, radicalmente insofferente all’universalità della norma, incapace di riconoscere altra fonte di obbligazione che famiglia e relazioni personali, e per di più insofferente di idee generali e teoriche: e per questo, non per maggiore ignoranza della media europea, pochissimo incline alla lettura. Ma l’anti-italiano moralista e idealista  forse vive, come lei sottolinea, in un’angustia simile, anche se di segno opposto, a quella dell’italianità sdoganata e vincente di oggi. E se c’è un passo che a me sembrava necessario e giusto – una sorta di j’accuse a tutti noi, “ceto medio riflessivo”, ma più in particolare a “noi educatori” (in tutti gli ordini di scuole e accademie), e più in particolare ancora a noi studiosi o praticanti di filosofia, per le dimissioni che abbiamo dato dal mestiere di Socrate – lei ci vedrà l’ennesima ripetizione di una movenza, quasi di un’ossessione che vige impotente fin dai tempi di De Sanctis, o prima. La pulsione pedagogica, la volontà di “fare gli Italiani”….

Cosa potrei rispondere a questa diagnosi di cui percepisco anche la fondatezza? Le dico perché mi colpisce: perché io vivo nella perenne discrasia fra la scarsa novità, pregnanza, sostanza del pensiero civile e politico dei contemporanei, pur di quelli che più ammiro, troppo spesso tuttavia vittime di genericità o sterilità (ma mi sforzo come posso di sostenerlo anch’io, nelle pur rare occasioni pubbliche in cui è doveroso farlo); e la convinzione profonda che non ci si schioderà di un passo dal pressapochismo dell’opinione e dei suoi ideologismi se non si affronta il nodo propriamente filosofico della modernità: la mancanza, anzi la quasi universale negazione della possibilità, di una ricerca cognitiva vera e propria in materia di valore e valori, ma affidata a ciascuno, capace di illuminare l’esperienza di ciascuno – non una cosa da soli specialisti (per questo insisto sulle responsabilità di “noi educatori”).

E questa questione concerne non solo l’italianità. Ma tutta la modernità (sulla post-modernità, della quale vedo da Academia che lei è un esperto, non ho molto da dire). E del resto anche quell’espressione così larga e vuota, modernità, dice così poco. Ma naturalmente possiamo intendere l’orizzonte dell’Illuminismo e delle sue gigantesche speranze, che paradossalmente proprio nel Novecento, nonostante e in ragione delle sue catastrofi politiche e morali, si sono in parte incarnate nei grandi documenti normativi internazionali (la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’uomo del ’48, le carte successive dell’Unione Europea, la Carta di Nizza, Spinelli etc…). Ebbene, il tradimento di queste speranze ha certo molte ragioni extrafilosofiche, eppure anche una grande, propriamente filosofica o meglio etica – la perdita di fiducia nel dovere della ricerca cognitiva anche nel campo della responsabilità, della decisione, dell’azione…. Mentre una poderosa iniezione di idealità è stata virtualmente fatta alla politica del Novecento, con la costituzionalizzazione dei Diritti Umani e dell’etica pubblica, quasi contemporaneamente  lo spirito, l’impegno e l’esercizio di ragione e sensibilità che soli potevano reggere questa idealità, sono venuti meno. Tanti e poi tanti miei colleghi nelle scuole di tutti gli ordini hanno insegnato scetticismo pratico (quando non peggio: retorica) a tutte l’ore.  Del resto: la sola etica degna del nome, nella modernità – il kantismo – è anche teoricamente, a mio parere, fallimentare (lo si vede anche dall’evoluzione/involuzione di Rawls). Perché perde il contatto con la sola fonte di cognizione del valore – la cognizione del dolore. Quella per cui il suo libro, che invece vi attinge a piene mani, e tocca vertici  di grandissimo vigore – quasi antico – e insieme di intensità emotiva tutta moderna (intorno a pp 84 e 85), riesce ad essere così veridico, in grande parte.

Eppure risulta difficile mettere insieme la cura del senso e del valore, che ogni sua frase rivela, con la rassegnazione alla completa assenza di un riscatto, di una trasfigurazione e trasvalutazione possibile di quel sogno che, come lei dice con efficacia, l’Italia è stata. Perché cos’era questo sogno, infine? Non certo, al suo meglio, quello di un paese di santi e di eroi, ma solo quello delle condizioni minime perché una possibile fioritura personale – quella sì sottratta per definizione al destino comune – non fosse apriori negata a chiunque vi avesse aspirato. Un po’ di giustizia è un sogno immenso e irrealizzato nella maggior parte dei paesi del mondo, eppure non è affatto il valore sommo, ma solo il minimo, la condizione perché gli individui possano fiorire, perché il candore e la generosità, la curiosità e l’astrazione, il gratuito e il sublime, e perfino il tragico e il comico possano avere il dovuto onore. E siccome questo lei lo sa benissimo e non ha nessun tipo apparente di nostalgia comunitarista, riesce difficile  credere che davvero scelta intima e scelta pubblica possano essere in lei ormai così divise. Forse perché io sono fra i genitori che – dio non voglia – racconteranno con pudore e dolore ai loro coetanei le “vite perdute” dei figli? Non so, se è solo questo.

C’è poi questa rilettura della letteratura italiana che si sente sostenere molto dei suoi pensieri, e che ho trovato profondamente convincente in tutti gli esempi che fa. Con le due facce, ribelle e conformista, dell’italianità, Pinocchio e don Abbondio. Con la voce esile del Grillo Parlante e l’incorporeità del Cardinal Borromeo. Io vorrei avere un’altra vita per vagare, come non ho fatto, anche nella nostra letteratura (invece che fra i pensieri dei filosofi, quasi tutti d’altre, più fortunate lingue e tradizioni). Ma che dire degli esempi che non fa? Non c’è un po’ di quello che dice essere assente dalla nostra letteratura – il Bildungsroman, la dinamica interiore, lo spazio interiore – almeno in Svevo? Forse anche in Nievo? Vedo che le sue risposte sono già lì, disponibili su Academia. Magari un giorno le andrò a cercare – ci vogliono troppe vite per farne una, come dice il poeta.

Ma insomma questa riflessione che è piuttosto come vede un libero flusso di pensieri e confessioni è forse motivata anche dalla paura dell’inadeguatezza – ancora una volta, il vizio antico – soprattutto quando lei mi richiama a una mia convinzione con la quale quasi chiude il suo libro, sulla ricerca di conoscenza in campo morale, che come non ha padrone così forse neppure ha nazione.  Sì, su questo convergiamo certamente – anche nel senso più fragile e precario che il futuro italiano sia bene o male quello europeo: ma soprattutto nel senso che stanno più a fondo dell’identità nazionale le ragioni dell’identità morale. C’è da questo punto di vista una curiosa asimmetria: il male, il male pubblico, ciascuno di noi lo conosce nella sua particolarità – anche linguistica, anche nel suo dialetto, nella sua grevità regionale. Il bene, anche se può avere una faccia paesana, se ne libera misteriosamente subito. Dante è come lei dice il primo anti-italiano – eppure è universalmente accessibile. E non c’è nulla di più inglese e più universale di Shakespeare, eccetera. E allora mi permetta di concludere con un piccolo e anche un po’ sorridente ringraziamento. Ci sono libri o anche solo pagine o anche solo conversazioni in cui uno, senza più sapere dove sia o che lingua parli, ritrova la gioia… di un pezzetto di patria.

Nata a Pavia il 2 aprile 1952, è una filosofa italiana. Ha studiato alla Normale di Pisa, dove si è laureata nel 1976 con una tesi su Edmund Husserl.

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