Suicidio con sghignazzo

11 Ott 2015

Roberta De Monticelli Consiglio di Presidenza Libertà e Giustizia

Non è solo sulla tragedia dell’uomo giusto trascinato nel fango che ogni persona di buona volontà dovrebbe riflettere, oggi.

 

Non è solo sulla tragedia dell’uomo giusto trascinato nel fango che ogni persona di buona volontà dovrebbe riflettere, oggi. O forse sì: ma senza esclusivo riferimento al caso del Sindaco dimissionario di Roma. Su questo, in particolare, oltre all’articolo di Furio Colombo e a quello, severo, di Bruno Tinti (FQ 11/10), sarebbe urgente leggere il trafiletto di “Repubblica” dove, sotto un titolo tanto ambiguo da renderne innocuo il contenuto, si spiega su cosa si è basata la campagna dello stesso giornale contro il “marziano” (http://www.romafaschifo.com/2015/10/bomba-la-storia-delle-ricevute-di.html#sthash.WSTbrnED.dpuf): apparentemente il nulla. Sul caso generale di cui il “marziano” è emblema, invece sì, ciascuno dovrebbe riflettere. A partire dall’epiteto, che designa una persona talmente estranea ai sottintesi, alle regole non scritte e al linguaggio, muto o parlato, di una comunità, da guadagnarsi il titolo di cittadino di un altro pianeta. Chiunque ha provato, sia pure in dosi minime, che cosa sia la pressione unanime dell’omertà contro il singolo che della sua buona fede si fa scudo, sa di cosa si parla. Sa che non c’è salvezza, perché se i disonesti alla sua buona fede irridono, molti amici onesti proprio quella gli imputano a vizio “peggiore della disonestà”: la fesseria. Già: “fesso” appare proprio ciò che per la  persona in buona fede rende “buona” la sua  “fede” (e fiducia negli altri):  il principio ideale per cui si fa quello che si fa, la ragione dei propri atti, divenuta ragione di vita e parte della propria identità morale. “Fesso” appare il non rinnegare mai questo principio o questa ragione di vita, neppure con silenzi complici o gesti di intesa, con comportamenti “più saggi” o più conformi all’interesse di chi può rovinarti. “Fesso” vuol dire “stupido”, ma nel senso basso di “non furbo”. “Stupido”, in questo senso, è in Italia la vera parola assassina: ti uccide subito, mentre puoi sopravvivere eternamente alla fama di disonesto. Riuscirono perfino, ci ha ricordato Viroli su queste pagine, a uccidere la memoria di Ferrucci Parri: “Fessuccio”, appunto. “Fesso” è l’epiteto preferito che la mentalità consortile – e servile –  appioppa a chi la sfida. In luogo di un altro aggettivo, che invece sì, direbbe bene la hybris potenzialmente tragica di chi leva alta la bandiera del principio e dell’ideale, o esprime la fede razionale che in questi ripone, nobilmente. Quest’altro aggettivo è temerario. Perché è vero: l’abisso che si apre fra l’assoluto dell’esigenza, dell’ideale, del dovere, e il relativo delle possibilità, capacità, realizzazioni umane, è la vera fonte di tragedia nella vita degli uomini giusti, e nella storia umana. Che parliamo di tragedie “soltanto” morali, o di tragedie che grondano sangue (qualcuno dovrebbe far leggere ai ragazzi d’oggi, a scuola, I giusti di Camus) la fonte è una: l’infinita discrepanza fra l’ideale e il reale, fra l’obbligazione infinita e il suo oggetto finito. Due sono le vie di fuga dall’antinomia che crocefigge gli uomini dabbene: una, è l’idolatria del finito e del reale, che fa confondere la giustizia con la ghigliottina. L’altra è la risata verdiniana in faccia all’idea stessa di obbligazione. Quest’ultima non è una tragedia. E’ il suicidio morale di una nazione. La via dell’Italia contemporanea. Il suicidio con sghignazzo. Temerario chi sorridendo sottovaluta l’abisso fra l’ideale e il reale: l’Italia reale, destra e sinistra unite, lo trascinerà nel suo proprio suicidio morale, divertendocisi pure. I meno corrivi diranno “stupido” invece di “fesso”. Chi a questo suicidio morale non è ancora rassegnato, invece di ridere sulla “stupidità”, dovrebbe piangere sulla morte civile, che non è un’alternativa brillante alle tragedie della storia. Vorrei concludere con alcune parole tratte dal sito citato sopra: “Si tratta … di ragionare e di capire cosa sta succedendo in questa città, quale mastodontico blocco di potere paracriminale era stato intaccato e le modalità con cui ha reagito. Non si tratta di mafia come ce la immaginiamo. Non c’è Sandokan o Bernardo Provenzano. Non ci sono neppure Buzzi o Carminati. C’è un qualcosa di peggiore, di pervasivo e di gigantesco che transita attraverso ogni bancarella di cui è disseminata la città e nel modo di fare di ogni dipendente pubblico; che percorre le decine di addetti Ama appena licenziati perché assunti in nome di Parentopoli e volteggia sulle scrivanie dei medici di base che autorizzavano malattie inesistenti ai vigili urbani e che andranno sotto processo; che identifica ognuna delle decine di migliaia di auto in doppia fila pizzicate dallo Street Control e si siede sulle centinaia di sedie e tavolini abusivi rimosse dai dehors dei ristoranti del centro troppo spesso controllati dalla ‘ndrangheta. E’ una mafia con alcune centinaia di migliaia di picciotti che non sanno di esserlo, che si comportano da banditi senza neppure rendersene conto, vivendo questa come la normalità più assoluta. Una mafia pronta a tutto pur di cambiare e di ristabilire la pax. Se a Caserta, a Palermo e a Reggio Calabria c’è la criminalità organizzata, qui c’è la criminalità disorganizzata. Per la primissima volta un sindaco, volontariamente o per azzardo, se l’era messa contro”.

Grazie di questa lucidità, non ignara dell’ideale né del reale, né dell’abisso che li divide.

Nata a Pavia il 2 aprile 1952, è una filosofa italiana. Ha studiato alla Normale di Pisa, dove si è laureata nel 1976 con una tesi su Edmund Husserl.

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