Immaginare il cambiamento

02 Ott 2015

Alziamo allora lo sguardo e lottiamo per la nostra riforma, accettiamo e rilanciamo la sfida, mostrando ai finti innovatori il nostro volto “rivoluzionario”.

 

Ciò di cui più abbiamo bisogno è produrre nuovi punti di vista, non arrenderci al presente, riuscire ad incrinare l’unica narrazione rimasta. La sinistra è morta se non riesce ad immaginare il cambiamento, ad interpretare non solo un generico e diffuso malessere, ma a prospettare un futuro diverso. Da troppo tempo, invece, il pensiero critico ha perduto la sua radicalità, schiacciata dal peso del presente. Un presente che inquieta, che sembra avere ormai imposto una nuova, unica e totalitaria razionalità al mondo.

I diritti arretrano, le nostre forze scemano. Se siamo giunti sin qui è inutile negare che sia anche per colpa nostra: non abbiamo saputo interpretare il reale, ci siamo chiusi in difesa. Ma non è servito a nulla, nulla abbiamo difeso.

Ora, che poco abbiamo da perdere, dovremmo cercare di uscire dalla palude, per misurarci con le nostre idee e non più solo con la razionalità del reale. Non sto invocando l’estraneazione o l’esodo da un presente troppo avvilente. Al contrario sto ricordando che la sinistra ha un futuro solo se riesce ad esser parte di un “movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti”. Ma non si può prospettare un cambiamento reale sin tanto che si opera a rimorchio del presente.

Volare alto, dunque. E le trincee difensive sin qui costruite? Abbandonarle non si può, ne è possibile pensare alla strategia del cambiamento radicale lasciando intanto ai barbari il campo libero per devastare la città. Ci ritroveremmo ben presto nel deserto senza più nessuna possibilità di muoverci o di cambiare alcunché. Dovremmo allora riprendere seriamente in considerazione la distinzione tra strategia e tattica (la doppiezza togliattiana?). La prima per la ricostruzione di una prospettiva di sinistra che sappia aggregare le forze politiche e i soggetti sociali necessari per il cambiamento futuro; la seconda per resistere e per contrastare la politica dominante. Consapevoli, però, che è la prima via quella che può dare un futuro, mentre la seconda è necessaria solo per sopravvivere nel frattempo.

Tutto ciò impone un disegno di lungo corso. Se la sinistra vuole continuare a rappresentare il cambiamento (e non la conservazione, con la quale troppo spesso si confonde), deve porsi all’altezza del tempo futuro e non limitarsi alla gestione del tempo presente. Ma per questo deve recuperare la radicalità e il rigore delle proprie convinzioni.

La mia impressione è che una grande colpa della sinistra sia stata quella di non credere in se stessa, nella sua capacità di cambiare. Gran parte di essa (la sinistra di governo) si è da tempo arresa, stanca di lottare, soddisfatta delle conquiste ottenute nel corso del Novecento, si è limitata a governare il presente, cercando – ben che fosse – di ostacolare gli spiriti più selvaggi, frenare gli arretramenti più vistosi. Alla fine, però, ha perduto se stessa. Rinunciando a produrre una sua narrazione, non poteva che venir attratta fatalmente dal potere costituito, dalla forze dominati.

Una giustificazione è stata data per motivare questo chiudersi nei palazzi della sinistra di governo, richiamando una autorevole e tutt’altro che banale tradizione politica e culturale italiana: l’autonomia della politica come strumento per imporre il cambiamento. Se non lo strappo rivoluzionario, almeno le ragioni del progresso si sarebbero potute affermare dentro le istituzioni per poi conquistare una società che non sempre dà prova di civiltà o di essere in sintonia con i principi dell’eguaglianza e della libertà sociale. L’idea dunque che si potesse “costruire” il popolo attraverso la politica dall’alto, l’intermediazione del leader. Lasciamo perdere la discussione teorica, che coinvolgerebbe figure che hanno fatto la storia della sinistra  del nostro paese (da Antonio Gramsci a Mario Tronti) e che oggi trovano peraltro nuove consonanze (Ernesto Laclau, Chantal Mouffe); limitiamoci a rilevare quel che è stato l’effetto sul piano più strettamente politico. La definitiva cesura tra popolo e suoi rappresentanti.

Uno iato che si è sempre più esteso e che dimostra la miopia – il fallimento – della classe dirigente della sinistra. Dimentichi di una vecchia lezione della storia: senza il “popolo” nel chiuso dei palazzi vincono gli interessi costituiti. Se non si voleva ricordare Pericle, sarebbe stato sufficiente non dimenticare Berlinguer. Per chi si proponeva di trasformare il reale, è stato questo l’errore più grave. È così che le “grandi” riforme promosse dalla sinistra hanno finito per peggiorare le condizioni del suo popolo, mentre la crisi economica impone ora le sue leggi e l’equilibrio dei bilanci prevale sulla tutela dei diritti fondamentali. In Italia, ma non solo.

Il popolo della sinistra nel frattempo s’è sperduto, guarda altrove o non guada più da nessuna parte. È rimasto solo il leader che pensa alla nazione, riflettendo su se stesso, sulla propria immagine, come allo specchio.

Chi, nonostante tutto, ha conservato uno spirito critico ha provato a reagire. Ha ottenuto importanti successi (il referendum sull’acqua, quello sulle riforme costituzionali), ha combattuto con intransigenza (no Tav), ha maturato esperienze culturali di rottura (i beni comuni). Tutte esperienze che hanno incontrato però un limite: tutte hanno sottovalutato la questione della necessità di una rappresentanza politica. Rimanendo – per scelta o per obbligo – fuori dai palazzi, lontane dalla politica istituzionale, le lotte più innovative e di rottura non sono riuscite a rendersi egemoni, anzi alla lunga hanno mostrato le proprie debolezze. Le vittorie referendarie sono state presto dimenticate e non hanno trovato un necessario seguito istituzionale, le esperienze locali sono rimaste tali e alla fine si  condannano all’esaurimento.

Credo sia giunto il tempo per porre anche ai movimenti la questione del rapporto con il “potere” e la necessità della mediazione istituzionale delle lotte sociali. Terreno scivoloso, non gradito a chi nella lotta esaurisce il proprio orizzonte polemico. Tema che sino ad ora è stato eluso dai movimenti spesso non disposti a dare una forma politica stabile alle proprie rivendicazioni, immaginando che fosse sufficiente vincere la propria battaglia dentro la comunità di appartenenza.

Anche in questo caso si è attinto a piene mani ad una tradizione politica e culturale che ha attraversato l’intera storia della sinistra, quella più radicale e combattiva. Non sempre quella vincente. Così, l’autogoverno, la democrazia partecipativa, l’esaltazione del comune sono state unilateralmente assunte, senza nulla apprendere dalle criticità che la storia ha evidenziato, sin dalla comune di Parigi.

Ora siamo ad un bivio. Si potrebbe ripartire ponendo al centro della nostra riflessione proprio la questione dei limiti dell’autonomia della politica e quella della rappresentanza politica, che – secondo quanto qui detto – hanno rappresentato i due punti di caduta della sinistra.

L’autonomia della politica potrebbe essere intesa come capacità di progettare il futuro, distaccandosi dall’immediatamente rilevante, mentre la rappresentanza politica dovrebbe essere assunta come la necessaria “misura” di questa capacità di progettazione entro un contesto istituzionale.

Vediamo di sintetizzare con una sola esemplificazione un discorso che meriterebbe di essere altrimenti sviluppato.

Pensiamo – ad esempio – alla riforma della costituzione. Se è vero, come su questo giornale abbiamo ripetuto tante volte, che la revisione in corso è espressione di un complessivo disegno regressivo, che, se approvata, ci poterà indietro nel tempo, verticalizzerà le dinamiche politiche, aprirà a scenari non rassicuranti, se queste sono le nostre convinzioni, come possiamo pensare che la soluzione di ogni male sia far eleggere i senatori anziché farli votare dai Consigli regionali? Posso capire la tattica parlamentare (è questo il punto più esposto alla critica politica e dunque su questo si concentra la lotta parlamentare dell’opposizione), ma quale contro-egemonia può prodursi giocando tanto al ribasso? E se poi va a finire che il “principe” concede la grazia e accetta l’elezione diretta dei senatori avremmo per caso un buon Senato e una accettabile riforma del testo della Costituzione? Ma non scherziamo. Avremmo soltanto allungato la nostra agonia e data nuova linfa al leader indiscusso del pensiero unico e di governo. Alziamo allora lo sguardo e lottiamo per la nostra riforma, accettiamo e rilanciamo la sfida, mostrando ai finti innovatori il nostro volto “rivoluzionario”. È vero, il bicameralismo perfetto è da superare, ma per ragioni opposte a quelle che la retorica politica dominante afferma. Va superato sia per affermare la centralità del parlamento contro il dominio dell’esecutivo sia per ridare un senso alla rappresentanza politica offesa da un sistema elettorale che ne nega il valore sublimandolo nel feticcio della governabilità. Che ci si batta allora per una soluzione che meglio ha espresso nel corso della storia questa doppia esigenza: un sistema monocamerale affiancato da una legge elettorale proporzionale per ritessere le fila della rappresentanza politica strappata.

Sono proposte (quella indicata del monocameralismo e della riforma del sistema elettorale, ma infinte altre potremmo agevolmente definire) fuori dall’agenda politica del momento. E dunque qualcuno si potrebbe chiedere: chi ci ascolterebbe? Ma perché, adesso chi ci ascolta? E poi, in fondo, dipenderà da noi. Se sapremo raccontare una storia per la quale valga la pena vivere, l’attenzione potremmo conquistarla. Potremmo, ad esempio, andare al referendum costituzionale del prossimo anno non per difendere un parlamento in agonia, ma per provare a cambiare lo stato di cose presenti. Magari qualcuno ci segue, essendosi scocciato di piangersi addosso.

Nella Grecia antica si distingueva tra la nuda vita (zoé) e la vita degna di essere vissuta (bios).  Più che chiederci se c’è vita a sinistra dovremmo interrogarci su quale vita ci sia a sinistra.

 

Una versione ridotta è stata pubblicata su il manifesto del 2 ottobre 2015

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