Audizione del prof. Alessandro Pace nella Commissione Affari Costituzionali del Senato

10 Set 2015

SENATO DELLA REPUBBLICA – Commissione AFFARI COSTITUZIONALI  – 28 luglio 2015  – Presidente on. Sen. Anna Finocchiaro – nel procedimento di revisione costituzionale (d.d.l n. 1429-B)

 

Onorevole presidente,

si è da più parti sottolineata l’indispensabilità di precisare l’ambito entro il quale sarebbero ancora consentite modifiche al testo approvato dalla Camera. Ella stessa, nel concludere la Sua relazione, ha inoltre invitato gli intervenuti ad effettuare una riflessione approfondita con particolare riguardo allo spazio di intervento sull’art. 2 del d.d.l. cost. n. 1429-B.

1. Che gli emendamenti del Senato non possano limitarsi a quei soli articoli sui quali non si sia determinato il consenso dei due rami del Parlamento si giustifica in ciò, come osservato dal senatore Gotor, che la procedura di revisione costituzionale, per la sua atipicità, non può essere “appiattita” su quella ordinaria, come invece sembrerebbero prescrivere gli artt. 121 e 104 reg. Sen. Il che trova conferma, se non erro, nel parere, reso il 5 maggio 1993 dalla Giunta del regolamento della Camera dei deputati, in forza del quale, sulla base, appunto, dell’atipicità del procedimento di revisione costituzionale, furono considerati ammissibili dall’allora Presidente Giorgio Napolitano gli «emendamenti interamente soppressivi del comma radicalmente modificato dal Senato» (si trattava della modifica dell’art. 68 Cost.).

La tesi che qui intendo sostenere, pur essendo favorevole all’ammissibilità di emendamenti ancorché il testo sia stato approvato da entrambe le Camere, si pone su un altro piano. A mio parere le modifiche dovrebbero essere sempre ammissibili quando il testo presenti vizi d’illegittimità costituzionale che potrebbero condurre alla dichiarazione d’incostituzionalità della legge.

La Corte costituzionale, nella sentenza n. 1146 del 1988, ma più volte da essa richiamata come leading case, ebbe infatti ad affermare di essere «competente a giudicare sulla conformità » nei confronti sia dell’art. 139 Cost. sia dei principi che «appartengono all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana». Se così non fosse – ebbe a sottolineare la Consulta – «si perverrebbe all’assurdo di considerare il sistema di garanzie giurisdizionali della Costituzione come difettoso o non effettivo proprio in relazione alle sue norme di più elevato valore». E poiché la Corte, in quella sentenza, parlava appunto delle leggi di revisione costituzionale e delle altre leggi costituzionali, ne segue che la Corte costituzionale si è ritenuta competente a sindacare eventuali vizi di legittimità quand’anche la legge di revisione costituzionale fosse stata confermata in sede di referendum confermativo popolare. Il che è certamente rilevante nella specie, dovendosi in questo momento prescindere, dal punto di vista logico, se la riforma sarà approvata o meno dalle Camere, col voto favorevole in sede referendaria o no.

Ebbene, con riferimento all’elezione e alla composizione del Senato, risultano finora violati, dal testo finora approvato del d.d.l. cost. b. 1429-B, sia il principio della sovranità popolare sia il principio di eguaglianza, entrambi qualificati “supremi” dalla Corte costituzionale nelle sentenze nn. 18 del 1982, 609 del 1988, 390 del 1999 e 1 del 2014 il primo; nelle sentenze nn. 18 del 1982, 388 del 1991, 62 del 1992 e 15 del 1996) il secondo.

 2. Che la garanzia del suffragio popolare diretto rientri nella proclamazione del principio della sovranità popolare, è chiaramente esplicitato in un passaggio della sentenza n. 1 del 2014 della Consulta che dichiarò l’incostituzionalità della legge n. 270 del 2005 (e che, detto tra parentesi, ritenne legittima l’ultrattività di questa XVII legislatura solo per pochi mesi, come risulta dal richiamo esemplificativo degli articoli 61 e 77 comma 2 Cost., nelle ultimissime battute della sentenza[1]).

Si legge, in tale sentenza, al punto 3.1. del considerato in diritto, che «il voto (…) costituisce il principale strumento di manifestazione della sovranità popolare, secondo l’art. 1, secondo comma, Cost.». E quindi il principio supremo della sovranità popolare verrebbe violato negandosi il suffragio popolare diretto nelle elezioni del Senato. Una violazione tanto più grave in quanto al Senato verrebbe confermata la spettanza della funzione legislativa e della funzione di revisione costituzionale, le quali si pongono all’apice dell’esercizio della sovranità dello Stato.

Non intendo con ciò spendere argomenti in favore del bicameralismo, anche se al riguardo sono state espresse critiche ingiustificate. Mi limito però a sottolineare con decisione che l’attribuzione delle funzioni legislativa e di revisione costituzionale ad un organo non eletto dal popolo costituirebbe un vero e proprio vulnus dal punto di vista costituzionalistico e dei principi democratici.

 3. Né potrebbe sostenersi, come è stato prospettato nel corso dell’audizione del 23 ottobre 2014 dinanzi la Commissione Affari costituzionali della Camera dei deputati, che anche i Länder tedeschi eserciterebbero la potestà legislativa «pur essendo nominati di secondo livello»[2]. Il che è inesatto dato che in Germania non c’è nessuna nomina di secondo livello.

I Länder, eletti dal popolo, sono titolari, nell’ambito del Bundesrat, di diritti “propri”, che vengono esercitati dai rispettivi governi dei Länder, i quali, anche nell’esercizio della funzione legislativa e di revisione costituzionale, hanno a disposizione, a seconda dell’estensione e della popolazione del Land, da un minimo di tre ad un massimo di sei voti per ogni deliberazione.

Affermare che i Länder, nell’esercizio della funzione legislativa e di revisione costituzionale, sarebbero organi di secondo livello è come dire che anche il Presidente della Repubblica italiana sarebbe “indirettamente” eletto dal popolo per il tramite delle Camere e dei rappresentanti delle Regioni[3]. Il che fu esaurientemente contestato da Leopoldo Elia, il quale fece presente come l’uso dell’avverbio “indirettamente” sia corretto solo in riferimento alle elezioni di secondo grado (da definirsi “indirette in senso proprio”) [4]. Il che si verifica quando i Grandi elettori, eletti dal popolo, scelgono i senatori in Francia o scelgono il Presidente della Repubblica negli Stati Uniti (a meno, in questo caso, che «non vi sia l’impegno (o il vincolo) degli elettori presidenziali a votare un candidato “nominato” nelle commissioni nazionali»)[5].

Sostenere che, in un eventuale futuro, i cittadini italiani, per il tramite dei consigli regionali e dei consigli delle province autonome di Trento e Bolzano eleggerebbero “indirettamente” il Senato è quindi soltanto una finzione assolutamente fuorviante.

Per contro l’enunciato dell’art. 3 comma 3 della Costituzione francese, secondo il quale «Il suffragio può essere diretto o indiretto alle condizioni previste dalla Costituzione…», non lascia dubbi in proposito, grazie però alla relativa legislazione attuativa, secondo la quale il suffragio indiretto si sostanzia nell’elezione di primo grado di circa 150 mila Grandi elettori da parte dei cittadini francesi e nell’elezione di secondo grado dei 348 senatori da parte dei Grandi elettori.

 4. Discende, da quanto fin qui argomentato, che non può essere condiviso né il testo dell’art. 57 approvato dalla Camera dei deputati (che presuppone che i senatori sarebbero eletti dalle “istituzioni territoriali”), né il testo dell’art. 57 approvato dal Senato (che consentirebbe bensì l’elezione popolare dei senatori, ma nell’ambito «degli organi delle istituzionali territoriali nei quali sono stati eletti»).

Fermo restando che il testo della Camera andrebbe comunque modificato perché contraddice il successivo art. 66 quanto alla durata del mandato senatoriale – come da Ella rilevato nella Sua relazione nonché dal senatore Calderoli -, va detto, con riferimento all’art. 57 approvato dal Senato, che anch’esso viola il principio del suffragio popolare universale e diretto, sancito dall’art. 1 Cost.

Come giustamente rilevato dal senatore Gotor, il testo approvato dal Senato consentirebbe un «listino “a scorrimento”, con una quota di candidati al Consiglio regionale da dirottare preventivamente presso il Senato», per cui, chi nomina i deputati potrebbe «mettersi d’accordo con i dirigenti locali, affidando a questi ultimi la scelta dei candidati per il Consiglio regionale e riservandosi quella dei candidati per la nomina di senatore». Il che evidentemente violerebbe il principio del suffragio diretto previsto dall’art. 1 Cost. e sottolineato dalla Corte costituzionale.

5. Per rispettare il principio del suffragio popolare diretto dovrebbero quindi essere profondamente modificati non solo l’attuale art. 57 ma anche gli attuali artt. 63 e 66, i quali prevedono il contemporaneo svolgimento, da parte dei senatori, delle funzioni di sindaco e di consigliere regionale o provinciale. Contemporaneo svolgimento che, essendo patentemente irrazionale – non potendosi esercitare altrettanto bene entrambi gli incarichi – contrasta con l’art. 3 Cost. Il quale, nel proclamare il principio supremo di eguaglianza, garantisce implicitamente, secondo la costante giurisprudenza della Corte costituzionale, anche quel principio di razionalità che, come insegnatoci da Max Weber, è alla base di tutti gli ordinamenti moderni quale che sia l’enunciato per il tramite del quale esso viene espresso.

Ripeto ancora una volta: non intendo sostenere la tesi del bicameralismo perfetto. Ma prevedere che il Parlamento sia composto: da un lato, da un Senato composto da 100 senatori – di cui cinque in discutibilissima rappresentanza del Presidente della Repubblica, del quale avrebbero la stessa durata – e 95 consiglieri e sindaci part time; e, dall’altro, da una Camera che continuerebbe ad essere composta da 630 deputati, induce a ritenere che sia una lustra, uno specchietto per le allodole, sostenere che il Senato possa svolgere un ruolo rilevante nelle riunioni del Parlamento in seduta comune per le elezioni del Presidente della Repubblica, dei giudici costituzionali e dei componenti laici del Consiglio Superiore della Magistratura.

Il che conferma la carenza di contropoteri nella forma di governo prevista nel d.d.l. cost. Renzi-Boschi sia nei rapporti Camera-Senato sia allo stesso interno della Camera dei deputati. Conferma quella carenza di contropoteri che il Presidente Napolitano lamentò con riferimento al regime semipresidenziale francese nell’indimenticabile discorso per la celebrazione del 60° anniversario della Costituzione, nel quale egli auspicò, per la Francia, il riequilibrio delle opposizioni, il rafforzamento del ruolo del Parlamento e il riconoscimento del ruolo dell’opposizione.

Sotto il profilo della carenza di contropoteri è infatti significativa la reiezione, da parte di entrambe le Camere degli emendamenti PD e M5S, intesi ad inserire in Costituzione la possibilità per la minoranza di far istituire, a sua semplice richiesta, commissioni parlamentari d’inchiesta, sulla falsariga di quanto previsto in Germania sin dalla Costituzione di Weimar. Ed ancor più significativo della carenza di contropoteri è l’art. 64, il quale rinvia ai regolamenti parlamentari – rectius: ai parlamentari del primo partito votato, grazie alla legge elettorale denominata Italicum – di specificare quali potranno essere le garanzie dei diritti delle minoranze.

Il che pone, per il Senato – come rilevato nella Sua pregevolissima relazione – un problema preliminare; e cioè quello di «capire che tipo di “minoranze” esprimerebbe il Senato, nel momento in cui è posto al di fuori del circuito fiduciario e della dialettica maggioranza-opposizione».

 

* Professore emerito di diritto costituzionale nell’Università “La Sapienza” di Roma. 

[1] Il che inequivocabilmente stava a significare, per la Corte, che le Camere avrebbero bensì potuto e dovuto approvare la legge elettorale secondo le indicazioni della stessa Corte, ma non avrebbero né potuto né dovuto intraprendere un percorso di revisione costituzionale per una duplice ragione: a) perché i brevi tempi previsti dagli articoli 61 e 77 comma 2 Cost. non lo avrebbero consentito; b) perché un Parlamento eletto con la legge n. 270 del 1985 non aveva legittimità sufficiente per modificare la Costituzione del 1947.

[2] … da parte dell’on. Fiano.

[3] La Corte costituzionale, nella sent. n. 96 del 1968, ricorse maldestramente all’esempio del Presidente della Repubblica come organo indirettamente eletto dal popolo, per risolvere la questione di costituzionalità relativa ad un consigliere dell’amministrazione comunale di Palermo che avrebbe dovuto partecipare come elettore alle elezioni del consiglio provinciale di Palermo (sic!).

Del pari sfuocata è la sent. n. 50 del 2015, che, per coonestare la validità dell’elezione indiretta dei consigli metropolitani e dei consigli provinciali prevista dalla c.d. legge Delrio, ha richiamato il discutibile precedente della sentenza n. 96 del 1968 (con riferimento all’elezione del Presidente della Repubblica!). Tuttavia, poiché la Corte ha respinto la tesi dei ricorrenti secondo la quale le elezioni dei consigli metropolitani e dei consigli provinciali sarebbero caratterizzate da esercizio di sovranità, ne discende che l’affermazione della Corte, relativamente all’ammissibilità delle elezioni indirette, si riferisce solo agli enti territoriali minori, e quindi non si applica né alle elezioni di Camera e Senato e nemmeno a quelle dei consigli regionali (che esercitando la funzione legislativa, costituiscono forma d’esercizio della sovranità).

[4] V. il commento critico alla sentenza della Corte costituzionale n. 96 del 1968 di L. Elia, Una formula equivoca: l’elezione indiretta del Presidente della Repubblica, in Giur. cost. 1968, 1530 ss.

[5] L. Elia, Una formula equivoca, cit., 1536.

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