Ma che paralisi, B. provava a sottomettere i magistrati

29 Ago 2015

La favoletta dell’Italia paralizzata durante l’ultimo ventennio dimentica molti passaggi cruciali. Tipo l’assalto sistematico alla giustizia, bersaglio preferito durante la lunga stagione berlusconiana.

 

 

La favoletta dell’Italia paralizzata durante l’ultimo ventennio dimentica molti passaggi cruciali. Tipo l’assalto sistematico alla giustizia, bersaglio preferito durante la lunga stagione berlusconiana. Armando Spataro, procuratore della Repubblica di Torino, ci accoglie con una lista e un numero: 113! “Sono le leggi e i decreti di modifica al Codice di procedura penale dall’anno in cui è entrato in vigore, il 1989, a oggi. Nello Nappi, consigliere di Cassazione, ne tiene un elenco aggiornatissimo. Il numero crescerebbe di molto se contassimo gli interventi sul Codice penale”.

Si può dire, con tutte queste modifiche, che è arrivato il momento di riformare la giustizia?

Ne occorre solo una, razionale ed efficace: non reiterati e trasversali progetti di riforma magari soltanto annunciati, qualche volta attuati ma, poi, spesso ritenuti incostituzionali dalla Consulta. Il vizio di fondo di queste presunte riforme sta nel non essere inserite in un progetto organico fondato su serie analisi delle criticità e sul confronto con i giuristi. Prevalgono urgenze, emergenze, interessi personali di qualcuno e spesso, per esigenze elettorali, si preferisce assecondare le richieste dell’Italia peggiore, persino quelle marcate da xenofobia. Domina il disordine e arrivano modifiche importanti con la Finanziaria o con la legge sulla tutela agroalimentare. La magistratura negli ultimi vent’anni è stata attaccata sempre per una ragione: l’insofferenza dei politici alle indagini che li rig u a rd a n o. Le tensioni sistematiche tra politica e giustizia cominciano con Mani pulite. Non che prima non ci fossero – penso agli anni del terrorismo – però fino a Tangentopoli e alle prime inchieste su mafia e politica si trattava di tensioni fisiologiche in ogni democrazia. La situazione è mutata all’inizio degli anni 90 quando le critiche sono diventate offese sistematiche che hanno compromesso la credibilità stessa della magistratura.

Com’è accaduto?

A un certo punto si è fatta strada una “dotta” teoria, secondo cui la nostra Costituzione prevederebbe solo due poteri (esecutivo e legislativo) e un ordine, quello della magistratura. Lo hanno esplicitamente detto due ex ministri alla giustizia, Alfano e Castelli, interpretando in modo “originale” l’articolo 104 della Carta secondo cui “la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere”. Una teoria che serviva in qualche modo a legittimare un presunto assetto gerarchico della nostra democrazia in cui il potere politico opererebbe su un livello superiore rispetto a quello giudiziario, sicchè la magistratura dovrebbe conformarsi alle scelte di fondo dei governi. L’idea risale a Berlusconi quando chiedeva agli italiani come può un semplice funzionario pubblico, vincitore di un concorso, incriminare e giudicare chi, eletto dal popolo, è legittimato a governare. E anche autorevoli esponenti della sinistra come Luciano Violante – citando il giurista e Lord guardasigilli sir Francis Bacon secondo cui i magistrati devono essere “leoni sotto il trono” – hanno finito con il dar forza a una visione gerarchica dei tre poteri dello Stato. Senonché, al di là del fatto che Bacon si era dovuto ritirare a vita privata dopo una condanna per peculato, la nostra Costituzione non prevede gerarchie tra poteri, ma l’obbligatorietà dell’azione penale – che è garanzia dell’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge – e l’indipendenza del pm al quale è attribuita anche la disponibilità della polizia giudiziaria.

Hanno provato a scardinare questi principi, più volte.

Certo: ma proviamo a immaginare che fine avrebbero fatto le tante indagini sulla corruzione di politici se la polizia giudiziaria fosse dipendente dall’esecutivo! Come dimenticare i rischi che il Paese ha corso con il famoso – ma per fortuna naufragato –progetto di riforma “epocale”dei principi costituzionali in tema di giustizia nel 2011 con il governo Berlusconi?

C’è un nesso, secondo lei, tra il berlusconismo e il renzismo in tema di giustizia?

Lo si può probabilmente individuare, oltre che nell’uso ripetuto di slogan a effetto, in un certo modo di vedere e interpretare ruolo e potere di chi governa che conduce all’adozione di scelte cui gli altri devono comunque conformarsi, senza perdere tempo in confronti e riflessioni. Chi critica e ragiona rischia di essere bollato senza appello. Nei decenni passati c’è stata la stagione dei lodi. Abbiamo visto di tutto: legge sulle rogatorie, il lodo Alfano dichiarato incostituzionale, “processo breve” e “processo lungo”, il ddl Alfano di riforma del processo penale, leggi sul legittimo sospetto e sul legittimo impedimento, pacchetti – sicurezza a pioggia, progetti di riforma del sistema delle intercettazioni e la già ricordata riforma epocale della parte della Costituzione dedicata alla giustizia…

In tempi più recenti è stato sostenuto che l’azione della magistratura dovrebbe tener conto delle ricadute economiche.

Che significa questo? Se si chiede una magistratura preparata e consapevole anche delle conseguenze del suo agire, siamo d’accordo. Se si ipotizza, come qualcuno ha fatto, che le indagini e i provvedimenti che esse comportano dovrebbero orientarsi secondo gli effetti economici che ne possono derivare, non siamo d’accordo. È il legislatore che deve preoccuparsi dell’economia del Paese senza pretendere alcunché dalla magistratura che non sia l’osservanza della legge.

Dei torti della politica abbiamo parlato. E i vostri?

Sono contrario alla gerarchizzazione delle Procure. E poi trovo pericolosa quella che io chiamo “tendenza all’aziendalismo”che si traduce in parole come performance, produttività, priorità e che sta mutando i caratteri della magistratura italiana e i principi di riferimento. Non amo poi i colleghi che si presentano come gli unici difensori del bene, quelli che esternano sulle indagini in corso o che ripetono il mantra del proprio isolamento: la solitudine fa parte del nostro lavoro, anche se può non piacere

I magistrati in politica?

Sono contrario a qualsiasi limitazione dell’elettorato passivo. Ma non mi scandalizza pensare che, entrati in politica, non possano rientrare in magistratura. Purché questo problema si affronti anche per altri pubblici funzionari e si preveda l’impossibilità di esercizio della professione forense durante il mandato politico. ©

 

Il Fatto Quotidiano, 29 agosto 2015

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