In Sicilia serve una svolta

22 Lug 2015

Il tema è: ammesso che il deterioramento dei rapporti politici, istituzionali e perfino umani spinga Crocetta, per quanto si senta vittima sacrificale di «un golpe», a sbattere la porta, cosa succederà «dopo»? Si tornerà subito al voto nonostante il sistema elettorale siciliano si sia confermato un’opera maligna studiata apposta per garantire quella ingovernabilità che lascia più spazi di manovra ai poteri oscuri? O s’affaccerà la tentazione d’un commissariamento già lanciato anni fa dal leader di Confindustria Ivan Lo Bello e riproposto in questi giorni dal Quotidiano di Sicilia e altri?

Pd: Barca,Crocetta a primarie? In Sicilia c'é tanto da fare È un tormento. Basta. Rosario Crocetta probabilmente ha delle buone ragioni per prendersela con gli amici dai quali si sente tradito, con i compagni di partito che mai si son del tutto rassegnati alla sua vittoria alle Regionali 2012, con la rissosità degli alleati, con certi scoop smentiti dalla magistratura, come la (presunta) intercettazione in cui l’amico Matteo Tutino, il discusso primario ora in manette, gli avrebbe detto che Lucia Borsellino doveva «fare la fine di suo padre». È da comprendere il suo sfogo umanissimo quando dice «ho pensato anche di farla finita, è stato il giorno più brutto della mia vita…».

Ed è impossibile dargli torto quando si lamenta di certi messaggi di solidarietà troppo precipitosi o quanto rifiuta accanitamente il ruolo di capro espiatorio per il disastro sociale ed economico in cui è precipitata la Sicilia. La quale nel 1951 rappresentava un ottavo del Pil italiano e nel 2012 (dati Confindustria) è precipitata a un diciottesimo. Per poi inabissarsi ancora al punto che il rapporto Bankitalia di un mese fa segnala addirittura una perdita di 15 punti del Pil regionale dal 2008 al 2014. Una frana. Della quale sono responsabili, per gli errori e le scelleratezze del passato anche molti di coloro che sparano oggi contro il governatore come fosse lui l’origine di tutti i mali.

Detto questo, il caos nel quale sta rotolando la Regione, dove ieri la Corte dei conti ha confermato la condanna del direttore generale a pagare 1,3 milioni di euro per i «pasticci» fatti sulla «formazione», è così grave da far temere il peggio. Fosse anche innocente come un cherubino e vittima di cospirazioni cosmiche, pensa davvero il governatore di poter raddrizzare le cose non raddrizzate prima e tirare avanti qualche altra settimana magari cambiando altri tre o quattro assessori dopo averne cambiati in 30 mesi addirittura 36 e perdendo via via Franco Battiato e Antonino Zichichi e il giudice Nicola Marino e Maria Rita Sgarlata (azzoppata lei pure da una macchina del fango) o infine Lucia Borsellino? Mah…

Per quanto ostenti spirito bellicoso («Non mi dimetto, sono un combattente e un combattente muore sul campo», ha detto al nostro Felice Cavallaro) lo stesso Crocetta sa che, di fatto, è quasi finita. Perfino al di là di certe dichiarazioni liquidatorie sgocciolate dentro il suo partito. La sua stessa «maggioranza di minoranza» fornitagli dalla demenziale legge elettorale (vinse con 617.073 voti pari al 30,5% dei votanti e al solo 13% degli aventi diritto col risultato di dover chiedere fin dall’inizio i voti in aula su questo e quel provvedimento) non c’è più. Si è di giorno in giorno slabbrata. E la benevolenza iniziale del MoVimento 5 Stelle, che sulle prime mostrò curiosità per quel politico così eccentrico e umanamente carico rispetto ai vecchi parrucconi e vecchi affaristi, è finita da tempo.

Eppure, per uno di quei paradossi che divertivano magari Pirandello ma danno l’orticaria a quei siciliani che non ne possono più di certi andazzi, se anche il governatore rompesse gli indugi o li rompesse al posto suo Matteo Renzi, insolitamente muto a dispetto della fama di loquacità, non è affatto scontata una rapida corsa alla consultazione elettorale. Dicono tutto le dimissioni di Fabrizio Ferrandelli. Convinto che l’amico Crocetta abbia fallito («La questione è politica e riguarda le riforme mancate: acqua, rifiuti, energia. Questo governo è morto») il deputato democratico si era dimesso l’altro ieri invitando tutti a fare altrettanto, berlusconiani e grillini compresi: «Dimostrino che non sono attaccati alle poltrone».

Bene: le sue dimissioni, ieri, sono state respinte. Un sollievo per chi temeva il subentro come primo dei non eletti di Francesco Riggio (presidente del «Ciapi», l’ente di formazione che prese 15.191.274 euro per avviare al lavoro 18 apprendisti: 843.959 euro ad apprendista avviato, finiti in gran parte in tasca a vari politici) ma anche un segnale di resistenza del Pus. Il Partito Unico Siciliano (copyright Alfio Caruso) che non è di destra né di sinistra né di centro ma solo deciso a non mollare mai le poltrone. Poltrone che, la prossima volta, sarebbero venti di meno. Figuratevi il dramma di chi immagina di non rientrare.

Il tema è: ammesso che il deterioramento dei rapporti politici, istituzionali e perfino umani spinga Crocetta, per quanto si senta vittima sacrificale di «un golpe», a sbattere la porta, cosa succederà «dopo»? Si tornerà subito al voto nonostante il sistema elettorale siciliano si sia confermato un’opera maligna studiata apposta per garantire quella ingovernabilità che lascia più spazi di manovra ai poteri oscuri? O s’affaccerà la tentazione d’un commissariamento già lanciato anni fa dal leader di Confindustria Ivan Lo Bello e riproposto in questi giorni dal Quotidiano di Sicilia e altri?

Di sicuro c’è solo che, così com’è, la crisi convergente di una regione, di un sistema politico e di un partito richiede una svolta. E rapida. Col 23% di disoccupati, il 54% di giovani senza lavoro, il 251° posto tra le regioni europee per competitività del mercato del lavoro, il 270° per occupazione femminile, la Sicilia non ne può più di questo caos. Meglio: di questo «manicomiu».

 

Il Corriere della Sera,   22  Luglio 2015

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