L’inverno dei diritti e le “contro-costituzioni”

29 Giu 2015

Stefano Rodotà

L’inverno dei diritti è tra noi, e non è cominciato ieri. Vengono smantellate le garanzie previste dallo Statuto dei lavoratori, ultime quelle riguardanti i controlli a distanza, alle quali era affidata la dignità dei lavoratoti. Alte mura si ergono ai confini dell’Unione europea e tra gli stessi Stati, per allontanare i disperati migranti in forme che negano la loro umanità. Si spende la parola solidarietà e mai le politiche sono state così poco solidali. Ai diritti sociali si oppone l’inesorabile logica economica. Si respingono le proposte sul reddito minimo in nome

diritti negatiL’inverno dei diritti è tra noi, e non è cominciato ieri. Vengono smantellate le garanzie previste dallo Statuto dei lavoratori, ultime quelle riguardanti i controlli a distanza, alle quali era affidata la dignità dei lavoratoti. Alte mura si ergono ai confini dell’Unione europea e tra gli stessi Stati, per allontanare i disperati migranti in forme che negano la loro umanità. Si spende la parola solidarietà e mai le politiche sono state così poco solidali. Ai diritti sociali si oppone l’inesorabile logica economica. Si respingono le proposte sul reddito minimo in nome di una sua presunta incostituzionalità. E si minacciano barricate contro la civile legge sulle unioni tra persone dello stesso sesso.

Su questo dovrebbero meditare quanti continuano a parlare di un’enfasi eccessiva posta sui diritti, giungendo fino a dire che «di diritti si muore». A questa retorica è fin troppo facile opporre le durezze di una realtà che mostra come si muoia davvero, proprio per la mancanza di diritti. L’esistenza “libera e dignitosa”, di cui parla l’articolo 36 della Costituzione, si trasforma in vita disperata, in esistenza precaria, in sfruttamento che sconfina nella schiavitù. Le inchieste romane hanno mostrato l’indecente uso dei migranti attraverso accordi che assicuravano agli sfruttatori un euro per ciascuno di loro. Nelle campagne campane e calabresi lo sfruttamento di chi lavora nell’agricoltura ha assunto forme di schiavitù gestita anche da organizzazioni criminali, in quelle siciliane donne rumene vengono obbligate a prestazioni sessuali per mantenere il lavoro. E dovremmo distogliere lo sguardo dai diritti?

Questo accade quando le società vengono “liberate” dalle costituzioni. Fragili barriere di carta, illusori riferimenti quando la politica impone le sue durezze? Forse stiamo per certificare la fine del costituzionalismo nato nel secondo dopoguerra, quando lo “Stato costituzionale di diritto” venne fondato sul riconoscimento dei diritti fondamentali e sul controllo di costituzionalità. Oggi stanno nascendo “controcostituzioni”, dominate dal primato della finanza, alla quale tutto deve essere subordinato. Qui libertà e diritti non trovano posto, e così è la stessa democrazia a rischiare la scomparsa.

Qui è anche la radice della crisi dell’Unione europea. L’Europa, terra di diritti, sta negando se stessa. Nel Preambolo della Carta dei diritti fondamentali è scritto che l’Unione “pone la persona al centro della sua azione”. Nella realtà proprio la persona con dignità e diritti viene dimenticata e su tutto prevalgono gli impersonali meccanismi del calcolo economico e le pretese degli Stati membri di agire come meglio credono. L’Ungheria vuole costruire un muro al confine con la Serbia, e intanto ha già privato i suoi cittadini di garanzie fondamentali senza che l’Unione intervenisse per impedire ad Orbán di proseguire nel suo cammino autoritario. Ben diverso era stato l’atteggiamento quando in Austria si era manifestato il pericolo Haider, tanto che poi, con il Trattato di Maastricht, si era dotata l’Unione di più incisivi poteri di intervento. Non sono stati esercitati, e questo non è solo un segno di debolezza, ma diventa un incentivo verso quella “rinazionalizzazione” strisciante che insidia il progetto europeo.

Dall’orizzonte dell’Unione scompare anche un principio innovativo contenuto nella Carta dei diritti fondamentali e nel Trattato di Lisbona — la solidarietà. Dell’Europa fraterna si perdono le tracce, come accade quando si rifiuta l’assunzione di responsabilità comuni per l’accoglienza dei migranti. Lo stesso accade in Italia con l’esplodere degli egoismi municipali. Tutti ferocemente tesi a chiudersi in identità che escludono l’altro, e alimentano quello scomparire della coesione sociale e politica che alimenta il populismo. È vero che non si può invocare la solidarietà come fosse una bacchetta magica e non l’esito di politiche rigorose e coerenti. Ma queste politiche possono nascere solo se si parte dalla premessa del carattere fondativo di quel principio. La trama solidale è stata rotta, come mostra un bel libro del presidente della Fondazione Migrantes, monsignor Perego, e non è un caso che l’ultimo scritto di Enzo Bianchi si apra discutendo la parabola del buon Samaritano. Riferimento impegnativo perché, come ci ricorda Luigi Zoja, in quella parabola Cristo parla di «amare lo straniero».

L’abbandono dei diritti, letti impropriamente da qualcuno come strumenti di frammentazione individualistica, nasce della regressione culturale e civile nella quale siamo immersi. Un’Europa cieca cerca sempre più la salvezza in direzioni sbagliate. Mentre gli Stati Uniti riducono i poteri della National Security Agency sui controlli di massa, le leggi di Francia e Spagna (in misura più ridotta quella italiana) imboccano il cammino opposto con il pretesto della lotta al terrorismo e trasformano le nostre società in nazioni di sospetti. L’accentramento di poteri di controllo negli organismi di sicurezza si congiunge così con l’accentramento nelle mani dell’imprenditore di poteri di controllo elettronico sui lavoratori.

Prendere sul serio l’aggressione ai diritti è indispensabile per mettere a punto strategie di risposta, oggi affidate quasi esclusivamente alle corti costituzionali. Alla Corte di giustizia dell’Unione europea che, in un caso riguardante Google, ha affermato che il rispetto dei diritti fondamentali deve prevalere sull’interesse al profitto; alla Corte costituzionale tedesca, che ha imposto al parlamento i criteri economici necessari per garantire l’esistenza dignitosa (estendendoli anche a chi ha avuto asilo); alla Corte belga, che ha bocciato una legge sulla raccolta e conservazione dei dati personali; a sentenze della Corte italiana sul rispetto dei diritti sociali in materia di pensioni e contratti nel pubblico impiego.

Ho scritto in altre occasioni che non è un segno di buona salute di un sistema il concentrarsi della garanzia solo negli organi giurisdizionali. Ma gli equilibri non si ricostituiscono eliminando le garanzie essenziali, gridando tutte le volte all’invasione delle prerogative parlamentari. E’ stato invasivo l’intervento dei giudici costituzionali quando hanno quasi del tutto cancellato la più ideologica tra le leggi della Repubblica, quella sulla procreazione assistita, approvata da una maggioranza assai determinata, ma che violava clamorosamente in primo luogo il diritto alla salute delle donne?

E non è stata invasiva la sentenza sulle pensioni, perché tutte le leggi sono sottoposte al controllo di costituzionalità e il rispetto del pareggio di bilancio non puà consentire la violazione dei diritti sociali. Né la Corte deve fermarsi se la violazione ha prodotto effetti finanziari rilevanti. Può “modulare” le sue decisioni, ma questo non restituisce discrezionalità piena a governo e Parlamento, né la misura del giudizio può diventare il puro calcolo economico. Altrimenti si arriverebbe alla paradossale conclusione che più consistente è la violazione, minore è la possibilità di sanzionarla.

Siamo vittime di quello che Alain Supiot ha chiamato “le gouvernament par le nombre”, il governo affidato ai numeri, che rende impotente la politica e impraticabile la via dei diritti. Se non ci liberiamo da questa ipoteca, né diritti, né la politica democratica possono salvarsi.

La Repubblica, 26 giugno 2015

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