La sazia mediocrità all’epoca del disagio

22 Mag 2015

storiaDove ci ha condotti -almeno noi occidentali- la tragedia della Storia? A uno sbocco antitragico: una mediocrità sazia, un decente livello di libertà, niente che trascenda la mera soddisfazione dei bisogni individuali, una patina di tolleranza che intorpidisce i conflitti interni e esorcizza (almeno per adesso) quelli esterni, efficacemente consorziati nell’integralismo islamico. Che del tragico e del trascendente è, invece, la quintessenza.
Questa sensazione statica, di fine del futuro e di archiviazione del passato, in qualcuno suscita una ostilità sprezzante, una nostalgia violenta degli ideali che trascinano, delle visioni che illuminano. Sono le minoranze antagoniste, che tentano, molto faticosamente, di riorganizzare quel conflitto politico radicale che la sconfitta del comunismo ha sospeso, non si sa per quanto. Nei più prevale invece la constatazione che l’esito mediocre ha in sé la qualità, non così spregevole, di garantire la soddisfazione di bisogni (materiali e “politici”) per secoli solamente sognati, come la libertà dalla fame e la libertà di esprimersi. Ma pur sempre di esito mediocre si tratta.
Lo dicono benissimo le ultime righe del breve, folgorante saggio di Guido Mazzoni ‘I destini generali’ ( Laterza Solaris): «Alla fine del secolo più tragico della storia umana, alla fine di un conflitto ciclopico fra idee di società e di persona, il modo di vita che esce vincitore è il meno eroico, il meno grandioso, ma anche il meno elitario, il più immanente, il più autenticamente popolare. Non ho nulla di politico o di reale da opporre a tutto questo. Ho solo una forma di disagio».
Disagio è l’ultima parola del saggio, a suggello di un centinaio di pagine che hanno il merito (poco “saggistico”, se così si può dire) di far sempre percepire, più o meno svelato ma sempre presente, quello che definirei lo stato d’animo dell’autore. Specialmente nelle pagine dedicate alla Berlino post-nazista, post-comunista, post-Muro e post-tutto, con le icone pubblicitarie largamente egemoni rispetto ai simboli della memoria e della Storia, lo stato d’animo di chi sta scrivendo (e, per contagio, di chi legge) è una componente fondamentale del discorso attorno al “come stiamo”.
Stiamo così: coscienti del fatto che la società dei consumi — definizione “vecchia”, ormai almeno sessantennale, ma per ora non rimpiazzabile con altrettanta efficacia — ha vinto anche per meriti tutt’altro che disprezzabili, specie se la si guarda “dal basso”, partendo da antiche privazioni e millenarie soggezioni di classe; ma non è in grado di indicare altro obiettivo al di fuori del suo eterno ripetersi fino a diventare — se non lo è già — la parodia di se stessa. L’enorme wurstel di plastica che campeggia trionfante, a Berlino, nei pressi del sinistro luogo chiamato “Topografia dei terrori”, accanto alla ex sede della Gestapo e a un lungo trat- residuo di Muro, è parodistico in sé. Né serve, per sorriderne, essere un fine intellettuale.
Individuare nel “disagio” (parola anch’essa antitragica) il sentimento dominante richiede un esercizio di lucidità/onestà intellettuale non frequentissimo nelle élites. A partire dall’ammissione della natura “au- tenticamente popolare” e antielitaria (democratica?) del consumismo, del suo trionfante processo di liberazione dai vincoli sociali e dalle remore etiche, dal troppo complesso e dal troppo impegnativo, Mazzoni si tiene ben discosto dal giudizio sprezzante, dall’insofferenza acrimoniosa che contraddistinguono buona parte del discorso critico sul consumismo e sulla società di massa.
Si capisce che tra i molto citati Deleuze e Guattari, per i quali il crollo degli antichi legami è comunque emancipazione, e il “moralista” Lacan, che parlava di “obbligo del desiderio” e di “imperativo del godimento”, l’autore ha il dubbio — fondato — che abbia avuto ragione Lacan: il consumismo “obbligatorio” separa e sconnette, cancelto la i vincoli, e fa sembrare “nevrotico”, se non autoritario, qualunque tentativo di riconnettere, ricollegare, subordinare il piacere individuale a qualunque altra priorità o gerarchia. Ma se l’analisi del libro è questa, dal libro non è certo la chiusura elitaria che scaturisce, né l’arroganza/disperazione nihilista. È, diciamo così, una forma di demoralizzazione perplessa, di amarezza gentile comune a molti se non moltissimi contemporanei più o meno pensanti.
Filologo e critico letterario, Mazzoni (che è del 1967, dunque con il vantaggio non piccolo di sentirsi meno condizionato dalle esperienze politiche e dalle strutture ideologiche delle precedenti leve intellettuali) utilizza per la sua ricognizione a tutto campo psicanalisi (molta), letteratura, storia, filosofia e fatti di cronaca distillati con sapienza (acutissimo il riferimento a Fabrizio Corona). Manca, o quasi, l’economia, la cui recente invadenza a scapito delle scienze umane ne fa sentire assai poco la mancanza.
Molto letterario è il titolo del libro; fa pensare all’“azione parallela” di Musil. Ovvero alla forma di un vuoto, alla definizione puramente accademica di un’impresa nevrotica per eccellenza, quella di riconnettere a un futuro comune destini individuali “liberati” e deresponsabilizzati dal consumismo. I destini generali significa che non esistono, allo stato attuale delle cose, destini generali. Il dubbio, appena chiuso il libro, è che potrebbe essere il tremendo cozzo con la trascendenza (il fanatismo religioso) a ridare un significato meno mediocre, e più condiviso, alle nostre pigre libertà.

(*) I destini generali di Guido Mazzoni (pagg. 106) fa parte della nuova collana “Solaris” di Laterza.

la Repubblica, 22 maggio 2015

 

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