Stefano Rodotà «Dalla scuola all’Italicum la pedagogia del Capo mina la democrazia»

21 Mag 2015

«Fino ad oggi ci siamo con­cen­trati sul modello di orga­niz­za­zione isti­tu­zio­nale emerso dal com­bi­narsi dell’’Italicum e della riforma del Senato –afferma Ste­fano Rodotà–. La riforma della scuola appro­vata ieri alla Camera mostra un ele­mento radi­cale: l’’idea che Renzi ha della società».

Pos­siamo farne un pro­filo alla luce delle leggi sul lavoro, della riforma elet­to­rale e di quella costi­tu­zio­nale?

rodotà

«Fino ad oggi ci siamo con­cen­trati sul modello di orga­niz­za­zione isti­tu­zio­nale emerso dal com­bi­narsi dell’’Italicum e della riforma del Senato –afferma Ste­fano Rodotà–. La riforma della scuola appro­vata ieri alla Camera mostra un ele­mento radi­cale: l’’idea che Renzi ha della società».

Pos­siamo farne un pro­filo alla luce delle leggi sul lavoro, della riforma elet­to­rale e di quella costi­tu­zio­nale?

La scuola è la parte più impor­tante del Wel­fare tra­di­zio­nale. In un momento in cui aumen­tano disoc­cu­pa­zione e povertà si dovrebbe inve­stire sul suo ruolo di inclu­sione per impe­dire il ripro­dursi delle disu­gua­glianze. Invece la riforma disco­no­sce che la scuola sia un corpo sociale com­po­sto da sog­getti dif­fe­ren­ziati e riba­di­sce una for­tis­sima spinta verso la seg­men­ta­zione sociale. Attacca il con­tratto nazio­nale, esclude i corpi inter­medi, e in par­ti­co­lare i sin­da­cati, non rico­no­sce la par­te­ci­pa­zione demo­cra­tica espressa dagli inse­gnanti e dagli stu­denti che si stanno oppo­nendo. Sono gli ele­menti già emersi nel Jobs Act che ha por­tato l’’abolizione dell’’articolo 18 per i nuovi assunti. In que­sto modello di società non c’’è spa­zio per la coe­sione sociale.

Nel Ddl scuola appro­vato dalla Camera c’’è lo «School Bonus», un cre­dito d’’imposta al 65% per il bien­nio 2015 — 2016 e del 50% per 2017, rico­no­sciuto a chi farà dona­zioni in denaro per le scuole pub­bli­che o pri­vate. Cosa ne pensa?

E’ una forte spinta verso l’’outsourcing. Que­sta norma è un incen­tivo a far uscire la scuola dall’’ipoteca del pub­blico per affi­darla ai pri­vati che la gesti­ranno come meglio cre­dono. È come incen­ti­vare a farsi una pre­vi­denza pri­vata oppure una sanità privata.

Con­tra­sta con l’’articolo 33 della Costi­tu­zione che pre­vede l’’esistenza di scuole pri­vate «senza oneri per lo Stato»?

Sono stato ostile alla legge sulle scuole pari­ta­rie appro­vata nel 2000. Ci vedevo l’’escamotage per aggi­rare pro­prio que­sto arti­colo. Quando l’’hanno scritto, i costi­tuenti non ave­vano pre­clu­sioni ideo­lo­gi­che ma inten­de­vano rico­no­scere la prio­rità degli inve­sti­menti nella scuola pub­blica di ogni ordine e grado. Lo Stato deve in primo luogo per­met­tere che la scuola pub­blica fun­zioni al meglio. Solo quando que­sta con­di­zione sarà sod­di­sfatta, si potrà pen­sare di dare un euro anche ai pri­vati. Nel Ddl di Renzi non c’’è alcuna  risorsa aggiun­tiva ai pri­vati. I fondi a loro desti­nati sono sot­tratti alla scuola pubblica.

E’ stato detto che que­sta norma rispec­chia il plu­ra­li­smo e, in più, rap­pre­senti la fine di un tabù ideo­lo­gico della sini­stra.

Altro che abbat­tere un tabù. Ne costrui­sce un altro: la distin­zione tra scuole per abbienti e per non abbienti, di serie A e di serie B. Chi sostiene que­ste posi­zioni crede che il ruolo della scuola pub­blica sia in con­trap­po­si­zione con quella dei preti, come si diceva secoli fa quando ero un ragaz­zino. Il pro­blema è un altro: la scuola pub­blica, come spa­zio pub­blico di rico­no­sci­mento e con­fronto, è irri­nun­cia­bile per­ché qui posso costi­tuirmi come cit­ta­dino. Se invece dico che ognuno può farsi la pro­pria scuola reli­giosa, etnica, ter­ri­to­riale o cul­tu­rale inne­sco un con­flitto. La scuola non è più un luogo dove si apprende a rico­no­scere l’’altro in base alle sue diver­sità, ma un luogo dove si adem­pie una fun­zione pub­blica per un numero ten­den­zial­mente ridu­ci­bile di per­sone. Tutto que­sto è in con­flitto con l’’idea di una società aperta e plu­rale dove l’’uguaglianza esi­ste nella misura in cui viene rico­no­sciuta la diver­sità delle opinioni.

Crede che Renzi abbia attri­buito al «pre­side mana­ger» un’’importanza para­go­na­bile alla lea­der­ship poli­tica che lui intende svol­gere in poli­tica e nello Stato?

Cer­ta­mente. È rive­la­tore di que­sto atteg­gia­mento il fatto che abbia scelto di usare la lava­gna e il ges­setto: voi siete gli sco­lari e io il mae­stro che vi spiega la riforma. Dopo avere usato tweet e slide ha cam­biato la sua comu­ni­ca­zione e si è messo nella posi­zione di chi parla dall’’alto. È la rap­pre­sen­ta­zione tan­gi­bile della con­cen­tra­zione dei poteri nella figura del pre­si­dente del con­si­glio, prima ancora che nell’’esecutivo, che si vuole rea­liz­zare con le riforme isti­tu­zio­nali. Con que­sto dise­gno di legge Renzi tende a tra­sfe­rire que­sta visione del potere a tutti i livelli della società. Alle figure api­cali dei pre­sidi affida la mis­sione della scuola, quella di pro­durre buona cul­tura, ugua­glianza e rispetto dell’’altro. Sono d’accordo con chi ha defi­nito que­sta poli­tica come una «peda­go­gia del Capo».

Renzi sostiene invece che il preside-manager sarà libero di deci­dere e di ren­dere più effi­ciente la scuola.

Ma il pro­blema della respon­sa­bi­lità diri­gen­ziale non può tra­dursi nell’’accentramento del potere e soprat­tutto nella pos­si­bi­lità di sele­zio­nare i docenti. È lo stesso mec­ca­ni­smo visto all’’opera nel Jobs Act: all’’imprenditore sono stati con­cessi sgravi fiscali, l’’abolizione dell’’articolo 18, per faci­li­tare le assun­zioni. In que­sto modo i diritti dei lavo­ra­tori sono stati subor­di­nati al suo potere sociale. Con la riforma della scuola si crea un cen­tro di potere per gestire un isti­tuto con una logica tutta impren­di­to­riale e ad esso si subor­dina la par­te­ci­pa­zione nella scuola.

Chi si oppone a que­sta poli­tica è accu­sato di essere cor­po­ra­tivo o un relitto della sto­ria. Come si smonta que­sta reto­rica?

Dicendo che quella in atto non è un’’opera di sbu­ro­cra­tiz­za­zione della società, ma di con­cen­tra­zione del potere in una sola per­sona. Nei set­tori dove que­sto è acca­duto, ad esem­pio nelle opere pub­bli­che, sono venuti meno i mec­ca­ni­smi di con­trollo, di par­te­ci­pa­zione e tra­spa­renza. Il potere è stato usato in maniera discre­zio­nale e la cor­ru­zione si è moltiplicata.

In Ita­lia è inne­ga­bile il pro­blema della buro­cra­zia, non crede?

Ma non lo si risolve aumen­tando dise­gua­glianze e ingiu­sti­zie. Man mano che si intro­duce la logica pri­va­ti­stica e l’’accentramento della gestione si inde­bo­li­scono le pos­si­bi­lità di con­trollo e di par­te­ci­pa­zione. Que­ste fun­zioni sono essen­ziali anche nella vita della scuola il cui scopo è garan­tire l’’inclusione sociale, non la com­pe­ti­zione tra le persone.

Per­ché, fino ad oggi, chi si richiama alla Costi­tu­zione non ha pro­dotto una poli­tica capace di affron­tare la sfida di Renzi?

Si è pen­sato che, tutto som­mato, ci sarebbe stato il tempo neces­sa­rio per aggiu­stare le cose. Quando poi si sono com­presi gli effetti isti­tu­zio­nali e sociali della sua poli­tica è stato troppo tardi. La poli­tica uffi­ciale non è stata in grado di con­trap­porsi a Renzi. Que­sto vale per chi sta nel Pd, ma anche per chi oggi cri­tica l’’accentramento dei poteri nell’’esecutivo. Que­sti ele­menti erano pre­senti sin dall’’inizio e adesso le resi­stenze sono tar­dive. Non voglio dire che avevo ragione, quando ci chia­ma­vano «pro­fes­so­roni», né voglio fare la parte della Cas­san­dra. Per me è un ele­mento di autocritica.

Cosa è man­cato a que­sta oppo­si­zione?

La visione alter­na­tiva di una società dove la poli­tica è stata ridotta all’’amministrazione e all’’economia. Oggi chi si oppone a Renzi dovrebbe creare forme di auto-organizzazione e di agire poli­tico per rie­qui­li­brare la forte con­cen­tra­zione di potere che si sta rea­liz­zando a livello isti­tu­zio­nale. La società deve ricon­qui­stare il suo ruolo nel momento in cui lo spa­zio nelle isti­tu­zioni si restringe. Rimet­tere in movi­mento que­sti mec­ca­ni­smi oggi è un pro­blema poli­tico che si deve porre anche chi sta nelle isti­tu­zioni. Non si può fare poli­tica solo attra­verso gli emen­da­menti. Quella può per­met­tere di sal­varsi l’’anima solo quando si discute una legge.

il manifesto, 21 maggio 2015

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