Ma l’equilibrio di bilancio non può essere lasciapassare all’arbitrio della politica

10 Mag 2015

Liana Milella

zag 2Roma. La sentenza sulle pensioni? «Molti problemi ». La spaccatura della Corte? «Brutto segno ». Costituzione tra equilibrio di bilancio e giustizia sociale? «Difficile ma necessario districarsi ». Ne parliamo con Gustavo Zagrebelsky.
Che cosa l’ha colpita di più, professore, nella sentenza della Corte sul blocco degli adeguamenti pensionistici? «Più il metodo che il contenuto della decisione ».
Iniziamo dal contenuto.
«Noi non sediamo alla Corte. Possiamo avere le nostre opinioni private, ma solo la Corte è abilitata a dire ciò che è e ciò che non è conforme alla Costituzione. Come opinione privata, mi conforta che dal principio dell’equilibrio di bilancio non si sia dedotto automaticamente un lasciapassare al libero arbitrio della politica nello stabilire a chi farne pagare il prezzo. Il legislatore deve sempre e comunque tenere conto dell’uguaglianza della giustizia, tanto più in quanto siano in questione diritti previsti a salvaguardia dei ceti più deboli».
Non sta dicendo una cosa ovvia?
«Non mi pare. Nel dibattito politico, l’appello ai conti, e ai conti conformi alle richieste dell’Europa e della finanza internazionale, rischiava di diventare la super norma costituzionale».
Quindi lei approva incondizionatamente la decisione?
«Non mi spingo fino a questo punto».
C’erano altri modi per conciliare finanza e diritti?
«Probabilmente sì. Gli strumenti della Corte sono tanti. Spetta ora al legislatore esplorare le soluzioni per tutelare le fasce sociali più deboli e al contempo evitare il collasso finanziario».
Questo significa che il seguito della sentenza non è automatico?
«Infatti. La Corte si è limitata — e non poteva fare diversamente — a dichiarare incostituzionale la norma della legge Fornero. Ma non ha escluso — né avrebbe potuto farlo — che interventi diversi sull’adeguamento automatico delle pensioni siano possibili, purché nel rispetto dei principi di giustizia stabiliti dalla Costituzione. Questa potrebbe essere l’occasione per un discorso generale di giustizia nell’ambito dei trattamenti pensionistici delle diverse categorie».
Scusi, ma i “tormenti” del governo su come adeguarsi alla sentenza, su come restituire i soldi e se restituirli tutti, dimostrano che la soluzione non è poi così facile.
«È ovvio che sia difficile. La Corte ha aperto la prospettiva di un risarcimento integrale ma, come ho detto, questo non è automatico. Il legislatore, nel rispetto dei diritti essenziali, che riguardano soprattutto gli indigenti, può fare scelte. È chiaro che queste scelte, rispetto al quadro prospettato dalla Corte, scontenteranno qualcuno. Tanto più in quanto per coprire i costi della sentenza si intenda toccare in pejus posizioni pensionistiche privilegiate».
Dal contenuto della sentenza al metodo.
La Corte si è spaccata sei contro sei, e ha vinto il fronte della bocciatura solo grazie al voto decisivo del presidente Criscuolo.
In questa procedura vede delle anomalie?
«Certo non violazioni di norme giuridiche. Ma non di sole norme vivono i giudici, tanto più i giudici supremi. Alle norme deve affiancarsi la prudenza… ».
… proprio da lei arriva un invito del genere?
«Prudenza non vuol dire timidezza o paura. Mi spiego con due esempi storici. Il primo riguarda la sentenza della Corte suprema degli Usa nel celeberrimo caso Brown del 1954 che pose fine alla discriminazione razziale nelle scuole. Nelle sue memorie il giudice Felix Frankfurter racconta che il presidente della Corte Earl Warren, desiderando su una causa così importante l’unanimità dei giudici, tirò per le lunghe fino a ottenere quello che desiderava. “Per le lunghe” significò attendere il decesso dell’unico giudice dissenziente, il giudice Vincon. A quel punto l’unanimità era fatta e la sentenza non poté essere delegittimata come fosse stata una scelta politica di parte. Sono infatti le assemblee parlamentari che decidono a maggioranza».
Curioso esempio aspettare il decesso. E l’altro?
«Questo riguarda la Corte italiana. In una causa in materia penitenziaria il giudice relatore aveva proposto una soluzione molto innovativa, dalle conseguenze difficilmente prevedibili. Il presidente era dalla sua parte. La Corte, come nel nostro caso, si era spaccata in due, ma proprio col voto del presidente sarebbe passata la soluzione proposta dal relatore. A quel punto che cosa accadde? Il relatore stesso ritirò la sua proposta, che pure era sul punto di passare, in base alla considerazione che le grandi decisioni costituzionali non possono essere prese con risicate maggioranze».
Begli esempi. Ma cosa ci dicono se rapportati al caso delle pensioni? Che la Corte doveva cercare comunque una maggioranza più ampia su una faccenda così delicata?
«Significa, in generale, che mentre nelle assemblee parlamentari la divisione maggioranza- minoranza è fisiologica, negli organi giudicanti deve considerarsi l’extrema ratio. Prima di giungere al voto che divide, prudenza vuole che ogni sforzo, dandosi il tempo necessario, debba essere fatto per costruire il consenso più ampio possibile».
Ciò implica che si debba scendere a compromessi?
«Compromesso non è necessariamente una brutta parola. Soprattutto si deve tener conto che, nelle grandi cause costituzionali, sono in questione più esigenze che devono rendersi compatibili tra di loro. È ciò che, nel linguaggio dei giuristi, si chiama bilanciamento. Nel caso nostro, il bilanciamento riguardava diritti sociali ed esigenze di finanza pubblica. È ovvia la conclusione: quando si bilancia ciascuna delle parti deve rinunciare ad ottenere tutto in maniera tale che l’altra parte ottenga qualcosa. Questo modo di procedere è quello conforme alla Costituzione che noi abbiamo, una Costituzione in cui deve convivere una pluralità di principi ».
Quale poteva essere il compromesso?
«La Corte dispone di numerosi strumenti per modulare gli effetti delle sue decisioni. Spetta alla sua saggezza dire quali, non alla mia».
La sentenza potrebbe astrattamente costare una ventina di miliardi allo Stato. La Corte se ne doveva far carico?
«Piaccia o non piaccia, l’articolo 81 della Costituzione che impone il principio dell’equilibrio di bilancio, induce a rispondere di sì. Ma spetta al legislatore distribuire il peso di questo equilibrio tra le categorie sociali in maniera conforme al principio di giustizia sociale. L’equilibrio di bilancio non può essere usato ciecamente».

La Repubblica, 9 maggio 2015

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