La partita dei diritti/Alle riduzioni in ambito sociale ne corrispondono altre in campo politico

10 Mag 2015

Stefano Rodotà

Si annuncia una ripresa di attenzione per i diritti civili, che tuttavia non può essere considerata una partita a sé. Non è mai così quando si tratta di diritti. E questa volta, anzi, impone una riflessione che riguarda complessivamente la confusissima fase politica e istituzionale che stiamo attraversando.
Ai diritti e al loro riconoscimento (o concessione) si è molte volte guardato

imageSi annuncia una ripresa di attenzione per i diritti civili, che tuttavia non può essere considerata una partita a sé. Non è mai così quando si tratta di diritti. E questa volta, anzi, impone una riflessione che riguarda complessivamente la confusissima fase politica e istituzionale che stiamo attraversando.
Ai diritti e al loro riconoscimento (o concessione) si è molte volte guardato, e si continua a guardare, in un’ottica “compensativa”. È molto eloquente, in questo senso, la storia dei totalitarismi del Novecento, che hanno del tutto cancellato i diritti politici, cercando di compensarli, appunto, con concessioni sul terreno economico. Ma, in sistemi democratici, proprio i diritti civili sono stati talvolta giocati contro i diritti sociali. Ora, in Italia, si sta delineando una situazione più complessa. Si sono manifestate riduzioni dei diritti sociali, alle quali se ne stanno aggiungendo alcune riguardanti i diritti politici. La dichiarazione di incostituzionalità del Porcellum, infatti, aveva il suo fondamento in una inammissibile riduzione dei diritti dei cittadini per quanto riguarda la rappresentanza, un rischio che accompagna anche la nuova legge elettorale.
Per discutere correttamente di questi problemi, bisogna ricordare la critica alla divisione dei diritti in diverse categorie o generazioni, che rispecchia la vicenda storica del progressivo allargarsi dell’area dei diritti, ma non può divenire un criterio per stabilire una gerarchia tra i diritti riconosciuti, con il trasparente o addirittura dichiarato obiettivo di ridurre la tutela dei diritti sociali. A questa considerazione si deve aggiungere la constatazione della trasformazione che ha portato allo Stato costituzionale di diritto, del quale l’istituzione dei diritti fondamentali costituisce un connotato essenziale. Quando parliamo di diritti, dunque, tocchiamo l’assetto costituzionale nel suo insieme, che non può impunemente essere sottoposto a continui maltrattamenti.
I diritti come ostacolo alla decisione? Lo spirito del tempo ci parla anche di questo. Si insiste su vere o presunte inflazioni dei diritti, sulla necessità di un nuovo equilibrio tra diritti e doveri, soprattutto di bilanciamenti che fanno del calcolo economico l’unico criterio di valutazione dell’ammissibilità di un diritto. Ma, in Italia in particolare, l’accento sulla decisione come bene assoluto, pubblica o privata che sia, sta portando ad interventi taglienti che incidono proprio nella dimensione dei diritti. È avvenuto con il cosiddetto Jobs Act (perché questo travestimento anglofono di una legge che sostituisce nei punti essenziali quella che limpidamente parlava di “diritti e dignità dei lavoratori”?), con prassi mirate alla riduzione delle prerogative dei parlamentari, con una alterazione degli equilibri costituzionali affidata al combinarsi dell’Italicum e della riforma del Senato che fa deperire le possibilità dei controlli.
Il riconoscimento di diritti, infatti, porta anche a redistribuzione di poteri, con l’attribuzione a singoli o gruppi di rilevanti strumenti di controllo. Sembra quasi che siano state fatte prove generali di un assetto complessivo che diventerà più stringente una volta concluso l’iter delle riforme volute dal presidente del Consiglio. Si deve concludere che si sta ridisegnando un nuovo spazio dei diritti, nel quale non trovano posto quelli che possono configgere con la linea di un potere di decisione sempre più accentrato? È coerente tutto questo con la logica costituzionale che dovrebbe essere l’ineludibile punto di riferimento?
La risposta a questi interrogativi, che sono nelle cose, richiede una verifica di quel che sta accadendo o che ragionevolmente si annuncia. Un buon segnale è venuto dall’approvazione della legge sul divorzio breve, e ora si parla di cittadinanza agli immigrati sulla base dello ius soli e di una disciplina delle unioni anche tra persone dello stesso sesso. Provvedimenti attesi, che porrebbero anche rimedio ad una colpevole disattenzione del Parlamento rispetto a ripetute e sacrosante sollecitazioni venute in particolare dalla Corte costituzionale. Nell’attesa dei disegni di legge che daranno concretezza alle promesse, vi sono alcune questioni politiche e istituzionali sulle quali è bene riflettere subito.
La libertà di coscienza, contestata ai parlamentari in una materia come quella della legge elettorale, “principio primo” della democrazia, rifiorirà nel discutere temi come quelli ricordati, in parte almeno riconducibili all’ambigua e pericolosa categoria delle questioni “eticamente sensibili” e dei “valori non negoziabili”? Domanda non astratta, ma che scaturisce dalla composizione della maggioranza di governo, all’interno della quale è presente un partito che cerca di mantenere una sua identità presentandosi proprio come il difensore di valori che sarebbero travolti da iniziative di riforma davvero significative. Come verrà sciolto questo nodo? Prevarranno valutazioni di pura congiuntura politica, com’è accaduto per l’Italicum, con il suo regolamento di conti all’interno del Pd, e come potrebbe accadere con gli alfaniani, ai quali è assai improbabile che si chieda di sostenere buoni riconoscimenti di diritti civili minacciando crisi di governo e elezioni?
Altrettanto necessaria è una riflessione sull’effettiva ampiezza dell’area delle riforme. Se questa fosse delimitata qualitativamente solo secondo i criteri che stanno alla base della cittadinanza agli immigrati e dei diritti sulle unioni tra persone dello stesso sesso, si cancellerebbero certamente discriminazioni inaccettabili e si farebbe un passo nella direzione di una corretta attuazione di principi costituzionali, ma si finirebbe con il ribadire che l’ardimento riformatore può giungere solo fin dove non incide sulla decisione politica o economica. Ma vi è un ordine del giorno proposto dalla realtà, anche istituzionale, che rende inaccettabile scelte come questa.
Quale sorte spetterà ai diritti sociali? Si è appena cominciato a parlare con approssimazione di limiti al diritto di sciopero. Il governo ha una pericolosa delega in bianco per disciplinare i controlli a distanza sui lavoratori, che sembra concepita come rafforzamento dei poteri di controllo dell’imprenditore in palese contrasto con i criteri indicati da una raccomandazione del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa. Continuerà quella “eutanasia” del diritto del lavoro di cui parla Umberto Romagnoli? O si comincerà a rendersi conto dell’importanza della ricostruzione della “cittadinanza sociale”? Diseguaglianze, disoccupazione, povertà, restrizioni alla tutela pubblica della salute la rendono sempre più precaria. E questo stato delle cose, insieme all’incipiente riduzione della cittadinanza politica, mette in discussione l’insieme dei diritti di cittadinanza.
Rischi per i diritti vengono dalle risposte frettolose ad emergenze vere o costruite, com’è evidente nelle norme già approvate sull’antiterrorismo e da quelle minacciate sulle intercettazioni. Una stagione di rinnovata attenzione per i diritti deve misurarsi con tutto questo. È una consapevolezza indispensabile per contrastare le derive verso una democrazia senza popolo, e svuotata di diritti.

La Repubblica, 9 maggio 2015

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