Cittadini, quel sentimento civile che unisce le persone

10 Mag 2015

Stefano Rodotà

Servono avvenimenti più o meno drammatici, o comunque tali da colpire fortemente l’opinione pubblica, perché possa ridestarsi il sopito senso di appartenenza alla città, dunque la versione più diretta della cittadinanza? La marcia dei ventimila milanesi per reagire ai vandalismi del giorno prima suggerisce una risposta affermativa, che però induce a concludere che qualcosa di quella cittadinanza persiste, sia pur latente e ormai bisognosa d’essere riattivata da fattori eccezionali. Non è possibile, allora, accontentarsi di risposte frettolose e consolatorie, poiché siamo di fronte all’emersione chiara di un problema, non ad una soluzione.

milanesi puliscono cittàServono avvenimenti più o meno drammatici, o comunque tali da colpire fortemente l’opinione pubblica, perché possa ridestarsi il sopito senso di appartenenza alla città, dunque la versione più diretta della cittadinanza? La marcia dei ventimila milanesi per reagire ai vandalismi del giorno prima suggerisce una risposta affermativa, che però induce a concludere che qualcosa di quella cittadinanza persiste, sia pur latente e ormai bisognosa d’essere riattivata da fattori eccezionali. Non è possibile, allora, accontentarsi di risposte frettolose e consolatorie, poiché siamo di fronte all’emersione chiara di un problema, non ad una soluzione.
La quotidianità urbana descrive una realtà fatta di divisioni, di contrapposizioni, di distanze, di evidenti conflitti. Tutto questo ha avuto riflessi nei giorni successivi agli atti violenti, non tanto per l’insuccesso del tentativo della Lega di farsi anch’essa protagonista di una reazione, ma perché rimane aperta una questione assai complessa, nella quale s’intrecciano il rifiuto d’ogni forma di violenza, l’uso strumentale da parte dei violenti delle iniziative pubbliche di protesta, il diritto di manifestare come forma di partecipazione collettiva alla vita della città, la salvaguardia della pace cittadina, fatta anche del diritto di non vedersi bruciata la macchina o infranta una vetrina. Da qui bisogna partire per chiedersi in che modo si possa tornare non ad una generica normalità del vivere, ma ad un governo della città nel quale i cittadini possano ritenersi coinvolti.
Una idea forte di cittadinanza nasce proprio da questo. Vi è, allora, una parola da affiancare a cittadinanza, ed è solidarietà. Questo vuoi dire che bisogna guardarsi reciprocamente, non per appiattire le differenze, ma per riconoscerle nella loro realtà e trovare così, fuori d’ogni forzatura o scomunica, la regola della convivenza. Conviene leggere le parole conclusive della monumentale opera del nostro maggiore storico della cittadinanza, Pietro Costa, dove si ricorda la più generale aspirazione verso una «città dell’uomo, affrancata dalla paura della violenza, liberata dalla pressione del bisogno, capace di fare dei diritti il simbolo di una nuova appartenenza».
La città, la grande città, oggi è piuttosto il luogo dove in modo più marcato compare proprio la differenzanei diritti, e quindi diventa difficile creare appartenenza comune, premessa obbligata perché si possa creare vera solidarietà, né occasionale, né coatta. Diventa essenziale, allora, chiedersi come possano essere prodotte, insieme, solidarietà e cittadinanza.
È al governo locale che bisogna in primo luogo rivolgere l’attenzione, senza liquidare in modo sbrigativo iniziative come quella del sindaco di Milano, quasi che la marcia da lui promossa avesse come unico obiettivo l’intento normalizzatore di altre “marce” del passato. I tempi di reazione sono importanti, anche se poi esigono che le iniziative prese non rimangano la fiammata d’un momento, ma avviino effettivamente una riflessione rinnovata su città e cittadinanza.
Muovendo in questa direzione, si incontra una espressione che descrive la città come “bene comune”. Questa espressione, per il suo uso spesso approssimativo e disinvolto, suscita diffidenze, ma questa volte coglie la sostanza della questione. Infinite sono, da tempo, le riflessioni sulla cultura della città, che hanno messo in evidenza l’impossibilità di considerarla come una somma di aggregati fisici e di separare cose e persone che la compongono.
Parlarne come di un bene comune precisa ulteriormente questa sua dimensione, aprendo la questione di chi debba “prendersene cura”, rendendo sempre meno perentoria la separazione tra amministratori e amministrati. Lo spirito cittadino solidale ha bisogno di partecipazione e di coinvolgimento.
In Italia, negli ultimi tempi, la discussione generale sulla città come bene comune e stata accompagnata da una nuova attenzione di molti enti locali, che hanno dato alla “democrazia di prossimità” sviluppi proprio nella direziono della collocazione di molti beni nell’area della solidarietà e della gestione comune.
Sono state messe a punto procedure per la stipulazione di convenzioni per “la gestione partecipata” di «beni del patrimonio comunale che versino attualmente in uno stato di inutilizzo o di parziale utilizzazione e che la collettivitàpercepisce come “beni comuni”, in quanto potenzialmente idonei ad una fruizione collettiva e per il soddisfacimento di interessi generali». Esiste un modello di regolamento, già operante, che disciplina forme di collaborazione tra cittadini e comuni «per la cura e la rigenerazione dei beni comuni urbani». Sono solo alcuni esempi di una politica che va al di là degli appelli ai buoni sentimenti o si manifesta solo in occasioni eccezionali.
Sono indicazioni del fatto che si può passare ad una “normalità istituzionale”, dove cittadinanza attiva, partecipazione e solidarietà si congiungono. Questi sono i luoghi dove la democrazia può fare le sue nuove prove, mostrando pure come la crisi della città non sia ormai un destino. Una studiosa acuta, Giulia Labriola, ha messo in evidenza la possibilità di analizzare le città come “attori collettivi” e il rapporto stretto tra ricostruzione dello spazio fisico e di quello politico. Proprio qui, allora, ritroviamo la cittadinanza nella sua pienezza. Non lo stare insieme in un’occasione e in un momento, con spirito soltanto oppositivo rispetto a qualcosa che si ritiene inaccettabile. Piuttosto il luogo della presenza costante dei cittadini e del confronto continuo tra posizioni diverse.
Torna così il punto del riconoscimento reciproco, che non significa soltanto abbandono d’ogni violenza, ma costruzione comune anche attraverso la legittima contestazione di assetti esistenti. Un risultato, questo, che non può essere affidato solo a dichiarazioni, ma esige la concreta costruzione politica di un contesto istituzionale adeguato.

la Repubblica, 6 maggio 2015

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