La guerra ai complici non piace al Palazzo

07 Mag 2015

Vent’anni di indagini e processi -che ho seguito da osservatori privilegiati come la Direzione distrettuale antimafia di Caltanissetta e di Palermo mi hanno fatto capire che Cosa nostra più delle altre mafie, ha sempre avuto nel suo Dna la ricerca esasperata del dialogo con le istituzioni. Un dialogo finalizzato al raggiungimento di uno scopo semplice, definito e micidiale per la libertà e la democrazia nel nostro Paese: la creazione di un potere che pretende di non essere scalfito,

Vent’anni di indagini e processi -che ho seguito da osservatori privilegiati come la Direzione distrettuale antimafia di Caltanissetta e di Palermo- mi hanno fatto capire che Cosa nostra più delle altre mafie, ha sempre avuto nel suo Dna la ricerca esasperata del dialogo con le istituzioni. Un dialogo finalizzato al raggiungimento di uno scopo semplice, definito e micidiale per la libertà e la democrazia nel nostro Paese: la creazione di un potere che pretende di non essere scalfito, parallelo rispetto a quello istituzionale e che di fatto a esso vuole sostituirsi (…)
Eppure, ancora oggi, in molti fanno finta di non vedere, di non capire la vera essenza della mafia siciliana. Nelle istituzioni, nella politica, ma anche nella magistratura e tra le forze dell’ordine. Respiro un’aria strana in questi ultimi tempi: un’atmosfera carica della falsa e pericolosa illusione che Cosa nostra sia ormai alle corde. La consapevolezza del contrario fa crescere una sensazione molto amara di isolamento e di accerchiamento(…)
Subito dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio sembrava iniziata una vera e propria rivolta contro la mafia, a tutti i livelli. Un’inversione di strategia: non più il contenimento e la difesa, ma l’attacco decisivo per debellare il fenomeno, una volta e per sempre. In quei giorni percepivo il desiderio, all’apparenza condiviso e irrefrenabile, di cercare tutta la verità su quanto accaduto. Ne avvertivo la volontà in molti. (…)
Invece è accaduto qualcosa. All’improvviso è iniziata a montare una sorta di onda lunga di riflusso. Prima le campagne di stampa abilmente organizzate contro alcune indagini eccellenti, e i tentativi, in gran parte riusciti, di instillare nell’opinione pubblica un malcelato fastidio nei confronti dei collaboratori di giustizia. In seguito, è arrivata addirittura una riforma legislativa che ha disincentivato il fenomeno del pentitismo.(…)
A quel punto, sono tornato a respirare un’aria di disinteresse sempre più chiaro e generalizzato della politica nei confronti della lotta alla mafia. Il germe dell’indifferenza ha camminato, si è diffuso, si è insinuato anche nei tessuti che sembravano più resistenti. Poco alla volta ha provocato, persino in una parte della magistratura e delle forze dell’ordine, una sorta di stanchezza e di fastidio nei confronti di quelle indagini che miravano a scoprire in che modo la mafia sia ancora ben presente dentro le stanze del potere. Quella è stata l’amarezza più grande. (…)
La drammatica consapevolezza che ho maturato è che per sconfiggere veramente Cosa nostra dobbiamo guardare anche dentro lo Stato. Perché l’organizzazione mafiosa ha continuato a trattare, a tanti livelli, con uomini e pezzi delle istituzioni. Politici in cerca di voti, amministratori collusi, esponenti delle forze dell’ordine e dei servizi di sicurezza. Coltivando questi e altri rapporti, Cosa nostra ha superato l’isolamento in cui arresti e processi tentavano di ridurla. Ed è stata riconosciuta come entità presente e ben ancorata nella nostra società. Ecco perché voglio ribadire una mia considerazione, e credo ce ne sia bisogno in questo momento storico: con la mafia non si tratta, in nessun momento e per nessuna circostanza o contingenza. Non ci sono trattative cattive e trattative buone, magari ispirate dalla ragion di Stato  o giustificate dalla necessità di scongiurare chissà quale pericolo. Non si tratta. Non è solo un’affermazione di principio legata a un passato ormai lontano: anche negli ultimi anni Cosa nostra è tornata a cercare il dialogo con le istituzioni, pretendendo il riconoscimento della propria presenza.
Allora, per sconfiggere la mafia che vuole continuare a ritagliarsi un ruolo dentro le istituzioni, dentro il potere, lo Stato deve avere la forza di guardare per davvero in se stesso. Ha le energie e le capacità per farlo. (…)
Quando mi hanno riferito per la prima volta dell’ordine di morte emesso da Salvatore Riina nei miei confronti, ho subito pensato che dovevo agire e valutare quella prova acquisita nel corso di una mia indagine come se non si riferisse alla mia persona. Ho voluto ascoltare ripetutamente le frasi e osservare i gesti, il volto di quel boss che parlava di me. In quelle ore, qualcuno mi consigliò di andare via da Palermo, almeno per un certo periodo. È un’ipotesi che non ho mai preso in considerazione. Ho cercato invece di impormi lucidità e compostezza, anche per affrontare al meglio il «solito» problema del se e come presentare la novità a mia moglie e ai miei figli. (…)
Fino a qualche anno fa non mi ero mai realmente confrontato con il sentimento della paura. Forse per incoscienza, forse per superficialità. Negli ultimi tempi, invece, ammetto di aver cominciato a pensarci. (…)
Ma negli ultimi mesi è accaduto anche qualcos’altro, che non immaginavo. L’essere riconosciuto pubblicamente come bersaglio dello stragista più spietato di tutti i tempi, per qualcuno è stato addirittura motivo di ulteriore sospetto e diffidenza nei miei confronti. Ho provato una profonda amarezza di fronte a quelle che non posso definire se non speculazioni assurde. Intanto, resto a fare il mio lavoro.

(tratto dal volume “Collusi. Perché politici, uomini delle istituzioni e manager continuano a trattare con la mafia” , Nino Di Matteo con Salvo Palazzolo, Bur editore)

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