La retorica dell’Expo

02 Mag 2015

Tomaso Montanari

La violenza criminale e demenziale di chi ieri ha sfasciato Milano rende ancora più difficile esprimere il senso di rigetto che ingenera l’immane baraccone dell’Expo.
I fiumi di retorica alimentati da presidenti, ex presidenti, sindaci, ex sindaci, giornalisti sono imbarazzanti almeno quanto il pessimo gusto della cerimonia d’apertura, o la patetica trovata dell’inno nazionale modificato.
Per chi ha a cuore il patrimonio culturale italiano e il suo significato costituzionale niente appare osceno come il Tesoro d’Italia,

imageLa violenza criminale e demenziale di chi ieri ha sfasciato Milano rende ancora più difficile esprimere il senso di rigetto che ingenera l’immane baraccone dell’Expo.
I fiumi di retorica alimentati da presidenti, ex presidenti, sindaci, ex sindaci, giornalisti sono imbarazzanti almeno quanto il pessimo gusto della cerimonia d’apertura, o la patetica trovata dell’inno nazionale modificato.
Per chi ha a cuore il patrimonio culturale italiano e il suo significato costituzionale niente appare osceno come il Tesoro d’Italia, l’accrocco di centinaia di opere d’arte prelevate da musei e chiese pubblici (oltre che in collezioni private) e sistemate da Vittorio Sgarbi nell’immenso spazio concesso (per diritto divino e amore del premier) a Eataly. E se non bastasse l’insormontabile problema dell’uso privato e della mercificazione di queste opere mantenute a spese di tutti, giunge una dichiarazione di Sgarbi a far comprendere l’entità del disastro culturale: «La mostra è stata concepita avendo come punto di riferimento il metodo indicato nel secolo scorso dallo storico dell’arte Roberto Longhi, nato, come Oscar Farinetti, ad Alba. Da quella città partono due rivoluzioni nella considerazione di un grande patrimonio di tradizioni e produzioni variamente rappresentate». Dove viene in mente il bel titolo di un libretto dell’eroico dissidente antibarberiniano del Seicento, Ferrante Pallavicino (arso vivo per ordine di Urbano VIII): La rettorica delle puttane.
Un titolo che affiora alle labbra anche quando si legge che qualcuno vorrebbe trapiantare l’imbarazzante Albero della Vita a Piazzale Loreto, in via definitiva. E uno si chiede: ma appeso a testa in giù, forse?

Più in generale, e in modo più radicale, come è possibile ascoltare senza un moto di disgusto la retorica per cui l’Italia punta tutto sulla città effimera dell’Expo quando da sei anni non riesce (e forse mai riuscirà) a tirar su l’Aquila, una città vera e meravigliosa?

Com’è possibile che questo metadone in forma di storytelling riesca a farci fuggire dalla realtà fino a darci l’ennesima grande occasione per fare tutto il contrario di ciò che dovremmo fare e sentirci pure bravi, buoni e giusti?

Sappiamo bene come il Caudillo Maleducato, e la più gran parte di coloro che prendono la parola in pubblico, replicano ai rari tentativi di tenere il cervello acceso: con l’intonazione di un malinteso e peggio indirizzato appello all’amor patrio e all’orgoglio nazionale. E con l’eterna tirata contro gufi, disfattisti, rosiconi.
Siamo solo all’inizio: buon metadone a tutti.

articolo9.blogautore.repubblica.it, 2 maggio 2015

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