Lo scrittore Cercas: “Basta umiliazioni, siamo tutti migranti”

25 Apr 2015

È semplice capire: dovremmo provare a metterci dall’altra parte — dice lo scrittore spagnolo Javier Cercas — , immaginare di essere noi quei ragazzi, quei padri, quelle donne incinte che attraversano il mare. Perché tutti siamo emigranti. Siamo stati migranti o lo sono stati i nostri avi, i nostri genitori, i nostri nonni. Migranti dalla povertà, dalle guerre, alla ricerca di una esistenza migliore. L’ho fatto una volta a Tijuana, l’ultima città messicana di fronte a San Diego, ho immaginato di

È semplice capire: dovremmo provare a metterci dall’altra parte — dice lo scrittore spagnolo Javier Cercas — , immaginare di essere noi quei ragazzi, quei padri, quelle donne incinte che attraversano il mare. Perché tutti siamo emigranti. Siamo stati migranti o lo sono stati i nostri avi, i nostri genitori, i nostri nonni. Migranti dalla povertà, dalle guerre, alla ricerca di una esistenza migliore. L’ho fatto una volta a Tijuana, l’ultima città messicana di fronte a San Diego, ho immaginato di attraversare la frontiera fra il Messico e gli Stati Uniti. Quella è la più grande linea di confine fra il primo e il terzo mondo. La nostra, quella europea è la seconda. A Tijuana all’improvviso tutto ti diventa chiaro. Il senso di umiliazione per chi si avvicina al Muro che hanno eretto è tremendo, sconvolgente. Ma è anche dove comprendi che la disperazione non si ferma di fronte a nessuna barriera. Che il desiderio di una vita migliore per sé, e soprattutto per i propri figli, è nella nostra natura, lo portiamo nel Dna».
Che impressione le fanno i barconi che solcano il Canale di Sicilia?
«Quello che è accaduto è spaventoso e di fronte ad un fatto orribile come la morte di 900 persone inghiottite dal mare è necessario trovare delle soluzioni. Altrimenti siamo complici. E questo non vuol dire porre la questione in termini sentimentali o emotivi ma in termini reali. Ogni giorno c’è gente che muore cercando di entrare in Europa. Ogni giorno. Nei mezzi di comunicazione, com’è inevitabile, se ne parla soltanto quanto il numero delle vittime diventa mostruoso, inaccettabile. Quando muoiono 5 o 10 non succede nulla».
Cosa dovrebbero fare le istituzioni europee?
«L’Europa non può permetterlo. Non può essere soltanto un mercato, deve essere anche un’idea, un concetto politico, sociale, umano. È un’idea di inclusione, un’idea di dignità. Se non siamo capaci di costruire uno spazio di dignità in questo mondo, non vale neppure la pena perseguire l’idea dell’Europa unita. Non si può solo rattoppare, pensare soluzioni provvisorie e precarie, servono soluzioni definitive».
Aprire le frontiere sarebbe una soluzione?
«Aprire le porte a tutti in modo disordinato è impossibile e ci getterebbe in un caos. Ma è anche falso credere che con politiche di controllo più severe si possa fermare l’onda. C’è un refrain spagnolo che dice: ‘Non si possono mettere le porte a un campo aperto’. E chi non ha nulla non ha nulla da perdere, cantava Bob Dylan. Non puoi fermarlo. Devi accoglierlo. Per quanto dure possano essere le tue misure contro di lui non potrai impedire che arrivi qui. L’unica cosa che puoi fare è regolare questa migrazione, governarla. Vengono e verranno se noi lo vogliamo ma anche se non lo vogliamo ».
Come si fa?
«L’emergenza migranti non è un affare aneddotico, è una grande crisi da affrontare e continuerà ad esserlo per molto tempo. Ma come nel caso della Grecia, l’Europa non si prende sul serio: non esiste una politica economica e neppure una politica estera comune. Non può essere un problema dell’Italia oggi, della Spagna domani o di Malta dopodomani. Quante persone devono ancora morire per la nostra incapacità di un agire comune? Nulla può fermare le migrazioni, si possono solo affrontare e gestire con dignità e razionalità».

la Repubblica, 24 aprile 2015

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