Tra l’Italicum e la questione morale

18 Apr 2015

La quiete dopo la tempesta è un classico, anche in politica: infatti regala tempo, un tempo necessario a valutare i danni inferti, quelli subiti e a riflettere sulle mosse da fare. Così come è un classico l’offerta del solito ramoscello d’ulivo, che permette di valutare stato d’animo, intenzioni e disponibilità al compromesso da parte dell’avversario appena bastonato.

La quiete dopo la tempesta è un classico, anche in politica: infatti regala tempo, un tempo necessario a valutare i danni inferti, quelli subiti e a riflettere sulle mosse da fare. Così come è un classico l’’offerta del solito ramoscello d’’ulivo, che permette di valutare stato d’’animo, intenzioni e disponibilità al compromesso da parte dell’’avversario appena bastonato.
E così, quello di ieri è stato per il Pd il giorno in cui una tregua impossibile ha momentaneamente interrotto una guerra inevitabile: Matteo Renzi è partito per gli Usa, e i suoi avversari ne hanno approfittato per tratteggiare bilanci e strategie.
Al centro dello scontro c’’è l’’Italicum: anzi, l’’Italicum e gli effetti che la nuova legge elettorale produrrebbe sommata alla riforma del Senato. In casa Pd se ne discute (spesso faziosamente) da mesi, come è purtroppo noto. Nessuna emozione, invece, zero scontri e nemmeno uno straccio di polemica intorno a un tema che dovrebbe, se possibile, preoccupare ancor di più: e cioè, la lenta trasformazione del Partito democratico in una forza politica che va progressivamente abbassando l’’asticella del suo rigore etico e delle cosiddette compatibilità.
Il problema riguarda, è bene dirlo subito, tanto la maggioranza quanto la minoranza del Pd, in questo caso unite in una sorta di nichilista indifferenza. Il caso di Raffaella Paita – candidata presidente in Liguria, raggiunta da un avviso di garanzia – è solo l’’ultimo di una serie di incidenti che avrebbero potuto esser affrontati in altro modo. Ieri, invece, il vicesegretario Guerini ha confermato che resta lei la candidata dei democratici: nel silenzio – o addirittura con l’’apprezzamento – di maggioranza e minoranza interna.
E’ solo l’’ultimo caso, dicevamo. Prima c’era stato quello di Vincenzo De Luca, candidato governatore in Campania; prima ancora quello di Stefano Bonaccini, poi eletto presidente in Emilia Romagna; e quindi certe primarie e certe alleanze in Sicilia, per fermarci alla storia recente senza rielencare i nomi e i cognomi dei coinvolti nell’’inchiesta di Mafia capitale o in quella ancor più attuale abbattutasi sugli affari di Ischia.
Il caso di De Luca, in particolare, risulta imbarazzante (al di là delle responsabilità del plurieletto sindaco di Salerno) perché ha messo in evidenza – tra l’altro – come le leggi dello Stato siano ormai più nette e rigorose di quanto lo siano lo Statuto e i regolamenti del Pd, che consentono la candidatura alle primarie anche a condannati in primo grado, mentre la legge Severino prevede la sospensione dall’’incarico per gli amministratori che venissero a trovarsi in quella condizione.
Questa lenta ma progressiva mutazione del Partito democratico sta avvenendo nella sostanziale indifferenza delle diverse correnti in guerra tra loro da oltre un anno. Vi sono, certo, casi singoli di resistenza, come quello di Sergio Cofferati che ha abbandonato il Pd dopo le primarie combattute giusto contro Raffaella Paita o di Pippo Civati, che ha messo in campo un candidato alternativo a quello del Pd proprio in Liguria.
Ma si tratta, appunto, di eccezioni: il resto del Pd – dunque la quasi totalità – sembra star facendo l’’abitudine a candidati coinvolti in inchieste giudiziarie, a sottosegretari indagati che restano al loro posto, a futuri governatori che rischiano la sospensione dalla carica appena eletti. Se la corruzione e l’’illegalità diffusa sono uno dei problemi più seri del Paese (e infatti il governo ne va facendo una priorità) allora bisogna annotare che le regole e le scelte politiche del Pd non sempre riflettono tale consapevolezza.
Dopodichè, la politica ha le sue regole, forse davvero è “sangue e merda” – come diceva il vecchio Rino Formica – e nessuno intende fingere ingenuità. Negli anni d’oro, Silvio Berlusconi vinceva elezioni locali e nazionali candidando, spesso, l’’incandidabile. Oggi il Pd di Renzi – trionfatore alle europee e in tutte le Regioni dove si è finora votato – sembra godere della stessa incontenibile forza propulsiva.
E’ proprio questa forza, però, che renderebbe possibile scelte diverse, più esemplari ed eticamente rigorose. Non solo perché il conto, prima o poi, arriva per tutti: ma anche per ridare credibilità a interminabili battaglie sui massimi sistemi e agli allarmi sui rischi per la democrazia. La democrazia, infatti, può traballare anche per molto meno di una riforma elettorale: indagati e condannati alla guida di Regioni e Comuni possono fare assai più danni di una preferenza in meno o di una soglia di sbarramento in più…

La Stampa, 17 aprile 2015

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