La confessione shock dell’agente sulla Diaz

15 Apr 2015

E proprio la lacuna della verità processuale, quella lista di nomi mai consegnata ai magistrati, viene adesso impugnata per vantarsi. È davvero finita, nella polizia di Stato del 2015, la stagione dei pestaggi da macelleria messicana, delle torture, delle botte a chi dorme? Quando uno legge che un poliziotto si vanta su Facebook di aver partecipato a quello che il vicequestore Fournier definì un pestaggio «da macelleria messicana», e scrive con l’orgoglio del supereroe in incognito «io c’ero quella notte alla Diaz, e ci rientrerei mille e mille volte» viene colto da un dubbio.

E proprio la lacuna della verità processuale, quella lista di nomi mai consegnata ai magistrati, viene adesso impugnata per vantarsi. È davvero finita, nella polizia di Stato del 2015, la stagione dei pestaggi da macelleria messicana, delle torture, delle botte a chi dorme?
Quando uno legge che un poliziotto si vanta su Facebook di aver partecipato a quello che il vicequestore Fournier definì un pestaggio «da macelleria messicana», e scrive con l’’orgoglio del supereroe in incognito «io c’’ero quella notte alla Diaz, e ci rientrerei mille e mille volte» viene colto da un dubbio.
Arresti alla Diaz, al G8 di Genova nel 2001
Il dubbio assurdo che abbia ragione lui, quando spiega ai 190 amici e colleghi che hanno cliccato “mi piace” sotto quella allucinante rivendicazione come va davvero il mondo, almeno sotto le insegne della polizia di Stato, e si fa filosofo di strada per rivelarci che «esistono due verità: la verità e la verità processuale».
La verità processuale la conosciamo tutti. Le condanne dei dirigenti della polizia che ordinarono il sanguinoso assalto ai manifestanti contro il G8 che dormivano nelle scuole genovesi (ma non degli agenti che eseguirono materialmente una barbara aggressione a freddo, «al di fuori — scrissero i giudici nella sentenza — di ogni regola e di ogni previsione normativa, ma anche di ogni principio di umanità e di rispetto delle persone»). Il severo giudizio della Cassazione su una condotta violenta che «ha gettato discredito sulla Nazione agli occhi del mondo intero». E infine la bruciante condanna della Corte europea, che accogliendo il ricorso di uno degli 82 cittadini feriti a manganellate ha stabilito che quella notte di luglio del 2001 la polizia italiana violò l’’articolo 3 della Convenzione dei diritti dell’’uomo: «Nessuno può essere sottoposto a tortura».
Sapevamo tutti che quella era una verità incompleta, perché non tutti i colpevoli sono stati processati e condannati, eppure è su quella verità parziale che lo Stato ha giurato che nulla del genere si ripeterà mai più, che nessun cittadino sarà ancora una volta torturato da chi indossa una divisa.
Adesso però il post del poliziotto Fabio Tortosa, un nome che non era mai comparso negli atti processuali — così come del resto quelli dei suoi compagni che irruppero nella scuola con il manganello in pugno — ci rivela che per loro, per una parte non sappiamo quanto grande della polizia di Stato, la verità da scrivere con le lettere maiuscole è che quella del 21 luglio non fu una notte di vergogna ma un’’impresa eroica. È una verità che non è scritta da nessuna parte, ma «la portiamo — scrive il poliziotto Tortosa — nei nostri cuori e nei nostri occhi, quegli occhi che si uniscono in un abbraccio segreto». E cosa dice, questa verità nascosta? «Che quello che volevamo era contrapporci con forza, con giovane vigoria, con entusiasmo cameratesco a chi aveva, impunemente, dichiarato guerra all’’Italia ». Dunque chi se ne frega dei regolamenti, delle leggi, della Costituzione e della Convenzione dei diritti dell’’uomo, al diavolo le sentenze, roba di cui parlano «i salotti radical chic», con il loro «perbenismo becero» e il loro «politically correct», gente che — scrive sempre il poliziotto Tortosa — quando subisce un furto farebbe bene, per coerenza, a rivolgersi a Batman e non ai poliziotti veri come lui.
E proprio la lacuna della verità processuale, quella lista di nomi che non venne mai consegnata ai magistrati permettendo a lui e ai suoi compagni di non essere neanche indiziati per quella notte di sangue, viene adesso impugnata spavaldamente da Tortosa per vantarsi — nella sua intervista a Radio Capital — di non aver commesso alcun reato, facendone uno scudo per la sua rivendicazione di impunità, accanto all’’esibizione dell’’orgoglio machista, «sì ci hanno inculato ma che importa?».
E allora, al di là delle misure disciplinari promesse dal Viminale per questo poliziotto che ha fatto coming out a processo finito, la vera domanda non è se conti più la verità processuale dello Stato o la verità segreta degli agenti come Tortosa. La domanda giusta è un’’altra: è davvero finita, nella polizia di Stato del 2015, la stagione dei pestaggi da macelleria messicana, la stagione delle torture, la stagione delle manganellate a chi dorme? O dobbiamo credere che dietro le parole da brivido di questo supereroe col manganello si nasconda anche tra chi indossa la divisa da poliziotto una diffusa adesione sotterranea al suo spirito cameratesco? E quello che vorremmo sapere, la sera prima di spegnere la luce, noi beceri perbenisti che crediamo ancora nei regolamenti, nelle leggi, nella Costituzione e persino nella Convenzione dei diritti dell’’uomo.

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