Tortura, l’ombra del medioevo tra noi

medioevo Quando nel discorso pubblico compare la parola “tortura”, immediatamente si determinano tensioni forti perché essa sfida altre parole, dalle quali sentiamo di non poterci separare come “dignità umana” e “democrazia”. Non sempre è stato così, perché si erano costruite forme di legittimazione sociale della tortura o addirittura s’era sperato che si fosse riusciti a confinare in un altro tempo non tanto la parola, quanto le pratiche che essa evoca. Infatti, quando nel 2000 si scrisse l’articolo 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, a qualcuno sembrò anacronistico l’aver ripetuto che “nessuno può essere sottoposto a tortura, né a trattamenti inumani o degradanti”. Non era forse l’ombra d’un passato del quale ci eravamo faticosamente liberati?
Poi sono venute le repliche impietose della cronaca e della storia. Le immagini delle violenze nella prigione irachena di Abu Ghraib hanno confermato la permanenza della tortura, le tecniche si sono aggiornate, la tortura viene “esternalizzata” in Paesi compiacenti dove gli Stati “democratici” trasferiscono persone alle quali estorcere informazioni con la violenza. La lotta al terrorismo produce nuove razionalizzazioni, si diffonde l’ossimoro “tortura umanitaria” per giustificarla con l’argomento della necessità di salvare vite umane. Ma così viene cancellata la frontiera tra chi combatte il terrore e chi lo pratica. Non è una affermazione astratta. Il waterbording, la tortura dell’acqua praticata dagli americani, viene utilizzata dall’Is.
Ora anche la torpida Italia viene in qualche modo risvegliata. Ma non da rivelazioni inattese. Dal ritorno di una realtà che conoscevamo in ogni terribile dettaglio e che era stata deliberatamente rimossa, con il Parlamento da anni adagiato in una pigra inciviltà. La sentenza, unanime, della Corte europea dei diritti dell’uomo descrive come violenza cieca e ingiustificabile quel che avvenne nella scuola Diaz, ed è prevedibile che lo stesso accada per le analoghe vicende della caserma di Bolzaneto. La tortura è sempre violenza. Si manifesta, quasi allo stato puro, con lo strazio dei corpi, dove si mescolano punizione e esempio, affermazione di potere assoluto e annullamento dell’umanità dell’altro. Ma la violenza può essere finalizzata a un obiettivo specifico: ottenere informazioni su un possibile attentato o sul luogo dove si trova un ostaggio, far confessare un delitto, spingere all’abiura. Tutto questo era stato minuziosamente codificato, nei testi medievali la violenza era regolata, il dolore somministrato in funzione dell’obiettivo da raggiungere. Ma questa tortura legalizzata, ricondotta ad un insieme di regole, è tornata negli Stati Uniti dopo l’11 settembre, in particolare con la teorizzazione di un giurista già noto per la sua difesa dei diritti, Alan Dershowitz, che ha sostenuto la legittimità di una tortura regolata, limitata a forme e casi specifici, e per ciò sottratta all’arbitrio. Qui il confronto tra libertà e sicurezza giunge al suo limite estremo e sfida la necessità di rispettare corpo e dignità delle persone con l’argomento dell’eccezionalità e dell’impossibilità di rispettare le antiche regole delle guerre tra Stati quando la guerra si fa globale. Ma questo è argomento pericoloso. Proprio perché i conflitti hanno caratteristiche nuove, invocando regole anch’esse nuove, come la tortura legittima, non ci si avvede che in questo modo si creano le premesse perché ogni contendente possa esercitarla.
Ma il caso della Diaz, come tanti altri, ci parla di una tortura che non ha altro fine che se stessa, facendo delle persone il puro oggetto dell’aggressione altrui. Sappiamo che giudici italiani, ben prima della sentenza di Strasburgo, erano stati consapevoli della impossibilità di condannare chi l’aveva praticata in assenza di una norma che la prevedesse. Parole al vento. Di che cosa s’impicciavano questi giudici, non si rendevano conto d’invadere il terreno della politica? E così ogni pretesto è stato buono per allontanare dal Parlamento il dovere di dare attuazione alla Convenzione dell’Onu sulla tortura. Le voci ragionevoli venivano spente, e il lungo silenzio parlamentare alimentava il silenzio della società, quasi che questa avesse accettato uno stillicidio di singoli casi di tortura come un piccolo prezzo da pagare per non turbare rapporti di potere descritti come necessaria difesa delle forze di polizia contro ingiustificate aggressioni. Il capovolgimento logico e politico è evidente. Non si potrebbe partire dalle libertà e dai diritti delle persone, ma dalle esigenze prioritarie della polizia, quasi che non avessero come fine proprio la garanzia di quei diritti.
Una volta di più, solo un richiamo dall’esterno ci ha ricordato che esistono i diritti e che la loro tutela non può essere subordinata alla logica della sicurezza o a quella del mercato. Ora si spera che la discussione parlamentare sulla tortura non sia soltanto rapida, ma consapevole del fatto che siamo di fronte al principio di dignità e al diritto fondamentale all’inviolabilità del corpo. Dovremmo avere sempre presente l’ammonimento di Antonio Cassese, il giurista che con più rigore e coerenza ci ha aperto gli occhi sui guasti della tortura, ricordandoci che essa «costituisce l’aspetto patologico dell’assenza di democrazia» e «perciò alligna in tutti gli Stati illiberali e nelle pieghe autoritarie delle strutture statali democratiche».

la Repubblica, 11 aprile 2015

4 commenti

  • Mi spiace ma Rodotà ha torto quando dice che le torture di Bolzaneto e della Diaz erano fini a se stesse. Dietro quelle torture, come dietro l’accanimento contro i gruppi più miti dei cortei di Genova c’era una volontà politica ben precisa: dissuadere i cittadini a partecipare a manifestazioni politiche.

  • Il richiamo finale al monito di Antonio Cassese è – a mio avviso – la chiave di lettura più significativa che si possa dare non solo di quanto accaduto a Genova, ma dei tanti episodi di atroce violenza che stanno coinvolgendo e….sconvolgendo il mondo intero : dalle fanatiche decapitazioni dell’ Isis agli eccidi nello Yemen, dalle folli stragi dell’ aereo tedesco e del tribunale milanese all’ omicidio in North Carolina di un uomo di colore disarmato da parte di un poliziotto bianco, per non parlare dei quotidiani casi di femminicidio. Sul virus della violenza, diventato ormai malattia endemica,
    fa una lucida e profonda riflessione Guido Rossi sul Sole24 ore di oggi, domenica 12 aprile . Ne riporto alcuni passaggi che mi sono parsi in grande sintonia con la tesi di Cassese, richiamata da Rodotà.
    ” Il virus della violenza (…) diventa il principale comandamento della vita civile e rappresenta la conclusione di un paranoico processo di globalizzazione, che ha portato al prevalere dovunque del ‘ privato ‘ sul ‘ pubblico ‘, smentendo clamorosamente la tesi di Fukuyama che la fine della storia sarebbe consistita nella vittoria in tutti i Paesi del mondo delle democrazie liberali , in modo particolare dell’ economia del libero mercato
    Ma è proprio la deriva, invece, di questa ideologia, che ha provocato e continua a provocare nel mondo un aumento intollerabile delle disuguaglianze di ogni tipo, di disoccupazione e miseria, nelle quali fiorisce
    il virus della violenza. Invocare la legalità non accompagnata dal concetto di giustizia e affidata soltanto al prevalere della libertà del privato, anche nel formulare le regole, ha portato a uno sconvolgimento globale. Più che mai le conseguenze economiche e sociali della crisi attuale, che appare come il frutto spietato di un liberismo senza regole, hanno reso ormai impossibile la realizzazione di un ‘ contratto sociale ‘ senza il quale viene meno ogni convivenza civile “.
    La democrazia – in altre parole – aveva ed ha bisogno di tutti e tre i suoi grandi ideali : libertè, égalité, fraternité. Aver pensato di poter
    raggiungere il primo obiettivo, la libertà – prescindendo dall’eguaglianza, dalla solidarietà, dalla giustizia sociale – ha significato ‘ privatizzare ‘ un valore ‘ pubblico e universale ‘ come la libertà e, di conseguenza, inserire il virus della deriva oligarchica nel corpo sano delle democrazie. E’, appunto, la condizione patologica di ‘ assenza di democrazia ‘ che origina i tanti, gravissimi effetti collaterali contro i quali la società civile più vigile e responsabile sta cercando di mobilitarsi: dal nichilismo politico alla corruzione, dalla illegalità diffusa agli autoritarismi delle ‘ strutture statali ‘. Pensare di debellare questi effetti collaterali, senza prendere di petto la malattia che ne è’ all’ origine – e, cioè, il paranoico processo di globalizzazione che ha trasformato , da liberale in….illiberale e anti-democratica , l’ ideologia del…

  • La sentenza (all’unanimità) della Corte Europea dei diritti umani è implacabile: l’Italia a Genova ha torturato e non solo non ha mai legiferato su di un reato abominevole ma ha protetto con la prescrizione i violenti mentre, la sentenza non lo può dire, noi sappiamo che ha anche premiato qualcuno da cui provenivano quegli ordini. Chi dubita rilegga gli atti, prima di schierarsi in difesa di un sistema che ha prodotto anche i casi Aldrovandi, Magherini, Cucchi e tanti altri, i più forse sconosciuti alle grandi cronache. Le loro famiglie derise e non di rado offese hanno lottato ma non trovato giustizia piena e riconoscimenti unanimi. In questa democrazia incompiuta e declinante per gli appetiti dei governanti , i diritti umani rappresentano, come la festa della donna, violentata , vilipesa ed uccisa ogni giorno in casa e fuori, in tutte le inciviltà del mondo, compresa la nostra, un millesimo di secondo di attenzione, null’altro. Sorgeranno ennesime accorate richieste di giustizia, finalmente, ma incombono la legge elettorale e le ricorrenti elezioni, drogate dagli interessi personali : ancora una volta non ci sarà tempo per simili “quisquiglie e pinzillacchere”, come diceva Totò, perché il mondo degli affari si deve occupare di ben altre necessità. Con patetica regolarità i controlli divengono accurati il giorno dopo (e per poco): a Milano proprio la tragedia ha dimostrato quanto sia grande il problema di gestire l’incolumità di quelle centinaia di persone che solo “dopo” sono state attentamente esaminate, mentre nella pratica corrente la sicurezza degli accessi è affidata alla buona sorte. Quante strade “della morte” ci sono nella Penisola: solo dopo il ripetersi degli incidenti compaiono una rotonda, un guard-rail, un semaforo, quasi mai una pattuglia. Quanti sono gli smottamenti o le esondazioni: nella sicurezza del giorno dopo compare qualcosa che, alla successiva prova atmosferica, risulterà incompiuta o inadeguata. Quante donne gridano la loro paura contro la violenza e vengono tranquillamente massacrate ed uccise per la sottovalutazione o la burocrazia che intorpidisce l’azione di difesa dovuta da chi ad essa è preposto. Quante tifoserie anche straniere percorrono in lungo ed in largo i riti della distruzione “per sfogo” di bande di delinquenti chiamati tifosi, spesso adulati dai responsabili delle squadre di calcio? Ci sarà sempre la prossima occasione per l’ennesima severa condanna senza alcun piano nazionale che stronchi questi atteggiamenti criminali. Si potrebbe continuare (dove è finito il poliziotto di quartiere?) nell’elenco vergognoso di mancata tutela da parte dello Stato la cui ragion d’essere è, anche e soprattutto, quella di intervenire a protezione della salute e dell’incolumità dei cittadini, prima, e non dopo le tragedie. Giampiero Buccianti

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