Noam Chomsky: la mia prima parola è stata «no»

05 Apr 2015

chomsky

A 86 anni l’americano Noam Chomsky è uno dei pensatori più seguiti e influenti a livello mondiale. Michel Gondry, il regista di “Se mi lasci ti cancello”, gli ha dedicato di recente un bellissimo documentario-intervista, animato graficamente, Is the Man Who Is Tall Happy? (2013), mentre in Italia è da poco uscito Anarchia. Idee per l’umanità liberata (Ponte alle Grazie), una raccolta di scritti politici del professore emerito di Linguistica al Massachusetts Institute of Technology. Il peso intellettuale di Chomsky, anarchico irreverente, si sente anche dove è già assente. Su Twitter, per esempio, qualcuno ha aperto un profilo a suo nome che si limita a pubblicare alcune citazioni, finora 2.000, e ha già 200mila follower, seguaci virtuali (e zero persone da seguire, cioè following). «Non so niente di Twitter. Se c’è qualcosa su di me, non è mio. Quanto a coloro che mi hanno stimolato realmente nella vita, citerei un’osservazione del mio amico, Howard Zinn, sulle “innumerevoli persone sconosciute” le cui coraggiose azioni hanno posto le basi per i grandi eventi che a volte entrano nella storia. Ho avuto la fortuna di incontrare molti di loro». Di altri, vissuti in epoche più lontane, ha seguito pensiero ed esempio. Nel film di Gondry, Chomsky ama ricordare i grandi del passato che hanno nutrito di metodo scientifico e dubbi filosofici la cultura occidentale, da Galileo a David Hume, di cui ammira il modo in cui è morto: circondato da amici come Adam Smith. E chi vorrebbe vicino Chomsky nell’ora estrema? «I miei cari, la famiglia ristretta. Nessun altro». E nessuna pena di lasciare il mondo con frasi a effetto: «No. Forse qualcosa mi verrà in mente, forse sarà solo qualcosa di semplice e sincero. La cosa migliore», risponde in una conversazione via email.
Qual è stata la sua prima parola?
«Non lo so realmente. Ma non mi sorprenderebbe se fosse stata no».
Cosa voleva fare da grande?
«Da bambino speravo di fare il tassodermista. Mi piaceva la parola, ma non l’idea di imbalsamare gli animali».
Altri sogni professionali?
«Sono stato molto fortunato a trovare un numero sufficiente di sfide intellettuali nella mia vita in modo da non dover pensare alle altezze che non potrò mai raggiungere. Non ho mai pensato, per esempio, di scrivere un romanzo».
«Cosa c’è in un nome?», scrive Shakespeare in Romeo e Giulietta. Nel suo che cosa c’è?
«Ho attraversato gran parte della vita come “Norm”, semplicemente. I miei genitori pronunciavano il nostro cognome in stile russo, cioè “Khomski”. A scuola, quando i bambini devono sedersi in ordine alfabetico, sono stato spesso nel posto sbagliato; così ho deciso di cambiarlo in “Tshomski”».
C’è una definizione di amore che la convince?
«Non ho mai trovato una definizione che sia a un passo dal catturarlo. Se siete abbastanza fortunati da averlo sperimentato, nelle sue varietà, sapete di cosa si tratta. Se non lo siete stati, per voi rimarrà un mistero».
Ha un primo ricordo di quando era piccolo?
«Sì. Rifiutavo di mangiare una zuppa d’avena yiddish, che mia zia stava disperatamente cercando di farmi mangiare. Ho serrato le guance e rifiutato di ingoiare. È un ricordo molto chiaro. Il luogo, la cucina, e il tempo, avevo circa 18 mesi di età».
Il suo cibo preferito?
«Sono sempre stato felice quando visitavamo un amico di mia madre che faceva degli ottimi panini tostati al formaggio, l’insapore formaggio americano nell’insapore pane bianco. Ora sono ecumenico».
Oggi anche nel cibo c’è molta narrazione, storytelling, che arricchisce di suggestioni l’alimentazione. Cosa ne pensa?
«C’è una massiccia propaganda che cerca di indurre il consumo di alimenti particolari, in gran parte molto dannosi. È una caratteristica naturale delle società di tipo commerciale dove l’obiettivo della produzione è la massimizzazione del profitto, non ciò che è di valore secondo un criterio ragionevole».
A Milano a maggio aprirà l’Esposizione Internazionale dedicata al tema «Nutrire il pianeta, energia per la vita». Quali sono i problemi dell’alimentazione mondiale?
«Le sostanze nutritive che sono disponibili non raggiungono le persone che ne hanno bisogno. A volte il fallimento è grottesco, come nel caso di carestie anche in casi dove il cibo è abbondante, ma non raggiunge chi ne ha bisogno: un fenomeno studiato particolarmente dall’economista Amartya Sen, una caratteristica naturale delle società quasi market (dove i prezzi di mercato sono regolati da istituzioni pubbliche, ndr). Altro grande problema è la produzione alimentare industrializzata, mostruosa nel settore degli animali, dannosa anche in altri casi, che fornisce un importante contributo alla catastrofe ambientale verso cui corriamo, con gli occhi aperti. Ancora una volta una proprietà naturale del nostro Stato quasi market. Bisogna, con dedizione, voler mettere fine a queste pratiche vergognose e distruttive, per sviluppare istituzioni sociali dedicate ai bisogni dell’uomo e dei beni comuni».
Cosa pensa della ricerca sugli ogm?
«Le preoccupazioni sono comprensibili, e non vanno ignorate. Se i benefici superino i rischi è una questione che può essere risolta solo con un’indagine seria».
Che cosa la preoccupa di più oggi?
«Le principali minacce per tutti noi oggi sono le catastrofi ambientali e la guerra nucleare, che è il motivo per cui il famoso Orologio di Doomsday del “Bollettino degli scienziati atomici” è stato appeno riportato due minuti più vicino alla mezzanotte, il più vicino in assoluto da quando nel 1983 c’è stata la paura davvero seria di una guerra (per una crisi tra i due blocchi, ndr). Per le “democrazie occidentali” una grave minaccia è il declino della democrazia radicale, per l’assalto neoliberista alla popolazione mondiale nella passata generazione: le democrazie formali diventano sempre più plutocrazie».
E l’anarchia oggi cosa significa?
«L’anarchismo è una tendenza nella vita dell’uomo e della società che rifiuta di accettare strutture di autorità e di dominio “autogiustificate”, esige che si giustifichino e quando non possono, come avviene di solito, cerca di ribaltarle in favore di strutture più eque e giuste».
Che opinione s’è fatto della scioccante propaganda terroristica dell’Isis?
«Posso aggiungere che “l’Occidente” non è scioccato quando, ad esempio, un ragazzo yemenita viene ucciso da un drone poco dopo un’intervista in cui ha mostrato un disegno in cui i suoi familiari sono bruciati a morte per gli attacchi dei droni e descritto il terrore costante di vivere sotto la più grande campagna terroristica globale che sia stata messa a punto. Né è “l’Occidente” scioccato alle notizie di persone tra le rovine dei quartieri devastati da assalti omicidi con armi Usa per cercare di trovare pezzi di corpi che possano in qualche modo identificare. Ad esempio, durante l’assalto israeliano a Gaza la scorsa estate. Ed è facile aggiungere molte atrocità enormi che non scioccano l’“Occidente”, perché le responsabilità sono nostre e non possono essere attribuite a qualche nemico prescelto».
Del film “American Sniper” lei ha criticato l’apologia del cecchino, ritrovando l’ideologia militare di Barack Obama, la guerra a distanza fatta con i droni.
«Quello che ho detto è un po’ diverso: ho criticato il modo in cui è dipinto l’eroe del film, Chris Kyle, nel suo libro di memorie. Prendiamo la sua prima uccisione, che descrive con molto orgoglio, quando i marines attaccano un villaggio durante una guerra omicida di aggressione criminale: una donna appare in strada tenendo in mano una granata, e lui la abbatte con un solo colpo, il destino proprio per “selvaggi” che lui “odia” come spregevoli sub-umani che osano resistere a un assalto alle loro case. Ciò che è significativo è l’accoglienza popolare, anche nei circoli intellettuali liberali».
Qual è il suo film di guerra preferito?
«Non guardo molti film di guerra. Non so se ce ne siano che superano quelli come ‘Niente di nuovo sul fronte occidentale’».

Corriere della sera, 5 aprile 2015

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