Rubare il futuro la dura legge che incatena le generazioni

25 Mar 2015

Gustavo Zagrebelsky Presidente Onorario Libertà e Giustizia

Le società vecchie sono quelle soffocate dal peso del passato. Le giovani sono quelle che, almeno in parte, se ne affrancano, per guardare liberamente se stesse e deliberare senza pregiudizi. Le età delle società si misurano in “generazioni”. Ma, che cosa sono le generazioni, una volta che, dalla cellula in cui sta il rapporto generativo genitori-figli, si passa alla dimensione sociale in cui migliaia o milioni d’individui si succedono sulla scena della vita, gli uni agli altri?

Isole di PasquaLe società vecchie sono quelle soffocate dal peso del passato. Le giovani sono quelle che, almeno in parte, se ne affrancano, per guardare liberamente se stesse e deliberare senza pregiudizi. Le età delle società si misurano in “generazioni”. Ma, che cosa sono le generazioni, una volta che, dalla cellula in cui sta il rapporto generativo genitori-figli, si passa alla dimensione sociale in cui migliaia o milioni d’individui si succedono sulla scena della vita, gli uni agli altri? Una volta che si voglia sostenere che una generazione giovane sostituisce una generazione vecchia? La questione ha una storia. Thomas Jefferson disse: «La terra appartiene a (alla generazione de) i viventi» («the earth belongs to the living»).  Quel motto stava a significare che, sebbene ogni costituzione porti in sé ed esprima l’esigenza di stabilità e continuità, non si doveva pensare a una fissità assoluta, a costituzioni perenni e immodificabili. Poiché ogni generazione è indipendente da quella che la precede, ognuna può utilizzare come meglio crede, durante il proprio “usufrutto”, i beni di questo mondo e, tra questi, le leggi e le costituzioni. Ma, qual è la “scadenza” di una generazione, cioè la sua durata in vita?

Parliamo della generazione del fascismo, della resistenza, del ‘68, di Internet, ecc. Da ultimo, si parla di “generazione perduta”, con riguardo a coloro che sono privi di lavoro e d’istruzione. La nuova generazione tedesca ha chiesto conto alla generazione dei suoi padri, per la parte avuta nel nazismo. La caduta del muro di Berlino ha aperto la via alla generazione dell’89. Ciascuna di queste generazioni è tale non per ragioni d’età di coloro che ne hanno fatto e ne fanno parte, ma per l’epoca da essi segnata e da cui essi sono segnati. In altri termini, si tratta d’identità storiche, di caratteri spirituali collettivi che definiscono determinati periodi e determinano passaggi o conflitti con la generazione precedente. E oggi, nelle nostre società, in nome di che cosa la generazione nuova pretende lo spazio che era della vecchia? Sempre più spesso i vecchi confessano il loro sentirsi “fuori luogo”. Con le parole di Norberto Bobbio: «Nelle società evolute il mutamento sempre più rapido sia dei costumi sia delle arti ha capovolto il rapporto tra chi sa e chi non sa. Il vecchio diventa sempre più colui che non sa rispetto ai giovani che sanno, anche perché hanno maggiore capacità di apprendimento ». Il luogo dei giovani nelle società odierne è il luogo della competitività, dell’innovazione, dell’efficienza e della velocità. L’identità dell’odierna generazione emergente è la produttività crescente finalizzata allo sviluppo.

A differenza di altre identità generazionali che fissavano, stabilizzavano e arrestavano il tempo e, dunque, in certo modo rassicuravano fino a quando non fossero sostituite da altre, la produttività crescente è la più implacabile delle leggi, perché richiede la mobilitazione di tutte le energie sociali disponibili e implica la marginalizzazione di coloro i quali non ne sono partecipi. Costoro, cioè coloro che non sanno, non possono o non vogliono stare al passo, cioè gli inidonei e i non integrati non possono giustificare la loro esistenza. Noi viviamo in un’epoca che crediamo ancora dominata dall’idea o, forse, dall’ideologia dei diritti umani: un’epoca aperta dalle rivoluzioni liberali e trionfante nella seconda metà del Novecento, anche come reazione alle tragedie dei totalitarismi. La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, che inizia proclamando che «tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in  dignità e diritti» può essere assunta come il simbolo riassuntivo di un’intera generazione. Ma è ancora così?

Nelle società gravate dalla penuria di risorse vitali — cioè, in pratica, tutte, salvo le società dell’utopia — gli individui nati o divenuti inutili erano soppressi fin dall’inizio o abbandonati a se stessi. Erano i non- oduttivi, i deboli, gli affetti da malformazioni e malattie, i “malriusciti” (secondo la terminologia eugenetica del nazismo) o coloro che rappresentavano solo un peso per gli altri, come i vecchi irrecuperabili a una vita attiva. Herbert Spencer ne è stato il teorizzatore riconosciuto. I poveri, i marginali, gli handicappati, i deboli, in generale gli “inadatti”, non avrebbero dovuto essere sostenuti a spese della collettività. La spesa sociale sottrae risorse allo sviluppo della “parte sana” della società. Oggi, i diritti umani impediscono la riproposizione di simili teorie, ma la pratica, rivestita dalla forza della necessità, ne ripropone gli esiti. La cosiddetta crisi fiscale dello Stato e la conseguente riduzione della “spesa sociale” — pensioni e assistenza,  sanità, lavoro — chi finisce per colpire? Proprio i più deboli. Tra questi, gli anziani, il cui numero  percentuale rispetto agli individui produttivi, aumenta con la durata della vita. Forse, è alle viste una vera e propria ribellione della generazione giovane, su cui grava l’onere del sostentamento degli anziani. Non li si elimina fisicamente e direttamente, ma li si abbandona progressivamente al loro destino, con effetti analoghi.  Sulle società della crescita per la crescita, incombe un’altra minaccia. Occorrerebbe sempre rammentare la lezione dell’Isola di Pasqua. Quest’isola polinesiana, scoperta dagli europei il giorno di Pasqua del 1722, è celebre per i 397 megaliti, uno dei quali raggiunge il peso di 270 tonnellate, che raffigurano giganteschi ed enigmatici tronchi umani, alcuni dei quali sovrastati da parallelepipedi colorati di rosso. Quando gli esseri umani vi posero piede alla fine del primo millennio, doveva essere una terra fiorente, coperta di foreste, ricca di cibo dalla terra, dal mare e dall’aria. Arrivò a ospitare diverse migliaia di persone, divise in dodici clan che convivevano pacificamente. Quando vi giunsero i primi navigatori europei, trovarono una terra desolata, come ancora oggi ci appare: completamente deforestata, dal terreno disastrato e infecondo, dove sopravvivevano poche centinaia di persone. Nel 1864, quando mercanti europei vi sbarcarono per i loro affari, il numero era ridotto a 111 individui, denutriti, geneticamente degradati.  Che cosa e come era avvenuto questo disastro? C’è un rapporto tra le grandi e inquietanti teste di  pietra e l’estrema desolazione di ciò che le circonda? L’enigma di Pasqua, per com’è stato sciolto dagli studiosi, è un grandioso e minaccioso apologo su come le società possono distruggere da sé il proprio futuro per gigantismo e imprevidenza. La causa prima del collasso sarebbe stata la deforestazione, cioè la dissipazione della principale risorsa naturale. La foresta ospitava uccelli stanziali e attirava uccelli di passo; forniva il legname alle canoe usate per la pesca; difendeva l’integrità del territorio coltivato a orto dalle tempeste tropicali. A poco a poco, le risorse alimentari vennero a mancare e la dieta si ridusse, prima, a polli e piccoli molluschi e, poi, a topi e sterpaglia.

La penuria dei fattori primi della vita, come sempre accade, alimentò le rivalità e la guerra tra i clan. Nella generale carenza di cibo, si finì all’ultimo stadio, l’antropofagia. E le teste di pietra? Sembra che abbiano avuto una parte di rilievo. Col passar del tempo e in concomitanza con le lotte tra i clan, da piccole che erano all’inizio, diventarono progressivamente sempre più imponenti. La più alta, sei volte un uomo normale, è anche quella costruita per ultima, quando la catastrofe incombeva. Motus in fine velocior. Erano un simbolo di potenza tecnologica he poteva essere speso nella lotta per la supremazia politica. Ma per scalpellarle dalla cava, trasportarle e drizzarle — un lavoro, per quella società in quel luogo e in quel tempo, mostruoso — occorrevano tronchi d’albero d’alto fusto e fibre legnose per fabbricare funi. Alla fine, l’isola fu desertificata e, parallelamente, si eressero pietre sempre più alte; poi per la maggior parte furono abbattute e spezzate. Quando tutto fu compiuto, i sopravvissuti pensarono a una via di fuga dall’inferno ch’essi stessi avevano creato. Ma il legno per costruire le barche — la loro salvezza — era già stato usato e consumato per le teste di pietra. Che cosa dunque avvenne a Pasqua? Come possiamo condensare in una sola frase la sua parabola? Per soddisfare manie di potenza e grandezza di oggi, non si è fatto caso alle necessità di domani. Ogni generazione s’è comportata come se fosse l’ultima, trattando le risorse di cui disponeva come sue proprietà esclusive, di cui usare e abusare. Il motto di quella gente dissennata avrebbe potuto essere quello del distinto signore, estensore della Dichiarazione d’indipendenza, Thomas Jefferson:

«La terra appartiene alla generazione vivente». Ammesso che nuove generazioni viventi possano esserci sempre di nuovo.

la Repubblica,    25 marzo 2015

 

Nato a San Germano Chisone (To) il 1° giugno 1943. Laureato a Torino, Facoltà di Giurisprudenza, nel 1966, in diritto costituzionale, col professor Leopoldo Elia.

  • Professore di diritto costituzionale e diritto costituzionale comparato alla Facoltà di Giurisprudenza e alla Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Sassari dal 1969 a 1975.
  • Professore di diritto costituzionale comparato alla Facoltà di scienze politiche dell’Università di Torino dal 1975.
  • Professore di diritto costituzionale alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Torino, dal 1980 al 1995.

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