La Resistenza/Piemonte, ’43-’45, monarchici e comunisti, preti e partigiani fianco a fianco in una storia esemplare raccontata in un libro

24 Mar 2015

La «Resistenza perfetta» c’è stata. Ed è quella che queste pagine raccontano.
Un dato colpisce negli uomini e nelle donne che ne sono protagonisti: discutono, progettano, amano, con le armi in pugno. E questo ci obbliga a una riflessione che ci porta nel cuore dell’«uso pubblico della storia». Tra le tante catastrofi provocate dal terrorismo degli anni Settanta c’è, infatti, anche una sorta di «interdetto culturale» che oggi incombe sulla lotta armata contro i tedeschi e i fascisti. Fu Marco Pannella, nel 1980, ad avanzare per primo il paragone tra i partigiani di via Rasella e le Brigate rosse. Dal punto di vista storico, quel paragone è una totale assurdità; pure, questa assurdità è largamente presente nel senso comune e la si ritrova, spesso, quando a scuola si parla di Resistenza, nelle reazioni degli studenti: «Professore, ma i partigiani erano come i terroristi?!».
La questione della violenza
Il bersaglio polemico di Pannella era il Pci di Berlinguer e l’attentato del 23 marzo 1944 rappresentava poco più di un pretesto. Ma partendo da quel pretesto, da allora in poi un pugnace revisionismo storiografico ha utilizzato il ventennio berlusconiano nel tentativo di espungere l’antifascismo e la Resistenza dal paradigma di fondazione della nostra democrazia repubblicana. Così, il terrorismo degli Anni Settanta non è stato più visto come un fenomeno politico, circoscritto nel tempo e legato a irripetibili condizioni storiche, ma è diventato una categoria generica e onnicomprensiva, in cui può precipitare di tutto (anche Mazzini e il Risorgimento, oltre che la Resistenza), fino a un giudizio liquidatorio che ha implicato la condanna di qualsiasi comportamento politico che abbia avuto a che fare con la violenza armata, indipendentemente dalle sue motivazioni e dagli esiti. In questa marea di luoghi comuni hanno sguazzato le tesi revisioniste sul «sangue dei vinti» e sulle efferatezze dei partigiani «rossi»; ma anche la storiografia più accorta è sembrata intimidita dall’interdetto originato dalle imprese delle Brigate rosse.
Dopo gli Anni Settanta, gli studi e le ricerche hanno privilegiato soprattutto i 600.000 militari italiani deportati in Germania dopo l’8 settembre, i «giusti» che rischiarono la vita per salvare gli ebrei, le donne che si prodigarono in gesti di solidarietà e abnegazione. Alla «Resistenza armata» si è così progressivamente sostituita la «Resistenza civile». Ed era giusto così. Si trattava di temi che andavano studiati, e quelle ricerche hanno contribuito ad ampliare la conoscenza di uno dei periodi più importanti della nostra storia. E tuttavia bisogna avere l’onestà intellettuale di riconoscere, oggi, che senza i partigiani in armi la «Resistenza civile» non avrebbe avuto ragione di esistere. Soccorrere gli inermi, aiutare i feriti, prodigarsi per nascondere i prigionieri sono iniziative che acquistano un senso compiuto solo se le si guarda come elementi fondamentali del contesto propizio e generoso in cui operarono gli uomini che decisero di sfidare in campo aperto i tedeschi e i fascisti.
Rifondazione esistenziale
Di «Resistenza civile» si parla anche in questo libro. Il lettore incontrerà gli scioperi degli operai e la solidarietà dell’ospitalità contadina; vedrà come nelle stanze del Palas ci siano uomini in armi ma anche feriti da curare, sbandati da nascondere, ebrei da salvare. Ma vedrà anche che in quella villa patrizia si va per discutere, per riposarsi, per leggere qualche libro, ma non vi si rimane; vi si passa prima di ritornare a combattere. E percepisce come il fatto di impugnare un’arma sia una soglia da attraversare. «Barbato» ci restituisce questa realtà con il gesto semplice di chi ha assunto la responsabilità del comando: una riga tracciata per terra davanti alle nuove reclute, un breve discorso per rendere consapevoli quei ragazzi di cosa vuol dire oltrepassarla, poi un passo avanti: sembrava un nulla e invece – come ci ha ricordato Italo Calvino – era come scavalcare un abisso. Si cambiava il proprio nome, si assumeva una nuova identità che era anche una nuova nascita, realizzando con il nome di battaglia una sorta di rifondazione esistenziale, avviando «una ricapitolazione di quello che si sarebbe voluto essere».
Non era solo la scelta dirompente di entrare in una sorta di terra di nessuno dove si andava per morire o far morire. Far parte di una «banda» partigiana, di una comunità in armi, conduceva a una strada segnata da un serrato confronto con se stessi, in un mondo in cui non c’era niente di scontato, in cui quella scelta andava continuamente ribadita e confermata e in cui ogni volta, per prendere quella decisione, si era da soli con la propria coscienza. Questo universo problematico e contraddittorio, spoglio di ogni fanatismo, è quello che rende la lotta armata nella Resistenza una realtà non assimilabile a tutte le altre opzioni armate che hanno segnato il rapporto fra la politica e la violenza nel corso dell’intero Novecento italiano, a partire dall’efficienza distruttiva mostrata dallo squadrismo fascista tra il 1920 e il 1922.
Uccidere, dura necessità
Nella lotta partigiana si uccide, ma si uccide quasi sempre come per una scelta obbligata, senza dare alla violenza sanguinaria un valore liberatorio, senza nessuna esaltazione di una violenza «fondante in quanto violenza», senza nessuna concessione a una sorta di valore intrinseco della violenza («Sparo, dunque sono»). Quando dai documenti e dalle testimonianze affiora un partigiano che uccide con naturalezza (se non con piacere), questo avviene suscitando nei compagni ammirazione o disagio, entusiasmo o perplessità, ma non viene mai accettato come un qualcosa di ovvio, di scontato. Sarà così per le reazioni che accolgono le gesta di «Zama», forse il più temerario dei garibaldini di «Barbato». A prevalere è sempre un atteggiamento di dura necessità, di una cosa fatta «o per dovere morale o perché non se ne può fare a meno», senza il gusto estetico dell’uccidere, quanto piuttosto con l’idea che quelle armi debbano servire a uno scopo e che a quello scopo mirano anche le discussioni sull’etica sessuale, sulla famiglia, sul futuro degli assetti istituzionali del Paese, tutto quello su cui ci si confronta nelle stanze del Palas e che è avvinto da un nesso inscindibile con la lotta armata.

La Stampa 24.3.15

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