L’ideale e il reale. Riflessione sull’abuso di potere

16 Mar 2015

Roberta De Monticelli Consiglio di Presidenza Libertà e Giustizia

C’è una vocazione profonda di Libertà e giustizia che non dovremmo dimenticare mai. E’ la difesa di ciò che è ideale. Un nome che faccia meno paura si trova facilmente: basta dire “difesa dell’interesse pubblico”. Se non lo difendiamo noi, non c’è assolutamente nessuno che lo faccia.
Ma difesa di ciò che è ideale è più netto e anche più chiaro. Ciò che è ideale non è reale. I valori non sono reali: sono – sempre in parte soltanto, perché sono vie verso l’infinito – da realizzare.

C’è una vocazione profonda di Libertà e giustizia che non dovremmo dimenticare mai. E’ la difesa di ciò che è ideale. Un nome che faccia meno paura si trova facilmente: basta dire “difesa dell’interesse pubblico”. Se non lo difendiamo noi, non c’è assolutamente nessuno che lo faccia.
Ma difesa di ciò che è ideale è più netto e anche più chiaro. Ciò che è ideale non è reale. I valori non sono reali: sono – sempre in parte soltanto, perché sono vie verso l’infinito – da realizzare.
Ciò che è ideale “si deve” realizzare: libertà e giustizia, per esempio, in tutta la profondità e l’articolazione che questi due valori manifestano alla coscienza di ognuno nell’età dei diritti (Norberto Bobbio ha chiamato così la modernità). Sappiamo bene che l’Italia è in questo senso ancora un paese profondamente illiberale. Bisogna letteralmente combattere per strappare stracci di diritti civili, corrispondenti all’autonomia della persona (tutto quello che riguarda la procreazione e il morire con dignità) o alla pari dignità e al divieto di discriminazione (unioni gay, libertà di vivere pubblicamente secondo i propri orientamenti di genere eccetera), o alla libertà di religione (mancano le moschee). Sappiamo anche che è un paese profondamente ingiusto, ingiusto non soltanto nella sfera del dovuto alle persone (non ho bisogno di fare esempi: la “coalizione sociale” di Landini ha soprattutto questo punto nel suo raggio d’attenzione); ma ingiusto anche nella sfera di ciò che è dovuto all’anima di ciascuno: i nostri paesaggi, la nostra bellezza, il nostro patrimonio, oscenamente svenduti, dissipati, rapinati, abbandonati all’incuria, distrutti dalla violenza degli interessi cementizi, non certo a causa del mercato e della concorrenza, ma al contrario degli scambi opachi fra i portatori di questi interessi e le amministrazioni locali corrotte – con le loro pratiche di svendita di demani pubblici, sostegno con pubblico denaro a imprese di gruppi di amici, uso di pubbliche risorse a vantaggio di interessi privati – mediante scambi che portano vantaggi di potere o “politici” agli stessi amministratori.
E così arriviamo al dunque. L’ultima cosa che ho descritto si chiama corruzione. Si può fare in modo opaco, contro la legge – oppure, ormai più sovente, “a norma di legge”. Basta corrompere le norme, e si corrompe legalmente, si è corrotti legalmente. Uno dei mezzi più diffusi, pervasivi, “normali” di operare in questo senso; uno degli ultimi “reati” che le norme contemplano, anche, è l’abuso di potere.
Ecco quindi puntuale la notizia: alla Camera sarebbe pronta una modifica della legge Severino su questo punto. Una di quelle modifiche ad alto tasso di viscidità, che dovrebbero procurare un insulto di vomito a chi le maneggia. Si tratta cioè di modificare la legge Severino su questo punto minimo: che la condanna in primo grado per abuso d’ufficio sparisca dalle cause che possono determinare la sospensione da cariche negli enti locali o in Parlamento. Il colpo al cuore, però, il cittadino lo riceve quando apprende che si è pronunciato a favore di questa piccola modifica anche Raffaele Cantone, Presidente dell’Autorità Anti-corruzione!
A parte il caso di Vincenzo De Luca, vincitore delle primarie Pd e candidato alla Presidenza della Regione Campania, che senza modifica sarebbe sospeso qualora eletto: c’è una ragione al mondo per farla, questa modifica, nel paese dove l’abuso d’ufficio da parte di chi ce l’ha, un ufficio, è più normale che respirare? E dove, anche in conseguenza di questa normalità, la corruzione ha raggiunto i livelli che conosciamo?
Perché quella, a dir le cose come stanno, non sarebbe una ragione, ma un delitto. Un atto di corruzione al quadrato, una meta-corruzione, peggiore di ogni atto corruttivo singolare, perché generatrice e rigeneratrice di abusi infiniti. La corruzione della legge. Cioè il suo appiattimento sul fatto. La sola direzione nel rapporto fra l’ideale e il reale che chi è al potere conosca, in Italia, da troppo tempo, ma con un’accentuazione e un’accelerazione parossistica negli ultimi tempi. Che l’ideale si riduca al reale, che il diritto si schiacci sul potere e il dovere sulla forza di chi ce l’ha.
Se perfino le autorità preposte a che questo delitto non avvenga lo considerano non poi così grave, a chi resta il compito di difendere uno straccio di ideale come quello, minimo, che chi a giudizio dei tribunali ha abusato del potere, debba lasciarlo almeno fino a prova contraria? Forse è bene almeno prenderne atto: sono le nostre coscienze, l’ultima barriera. Quando cederanno anche quelle, la differenza fra uno Stato e una combriccola di briganti non esisterà più. Forse non siamo mai stati così vicini a questo limite.

Nata a Pavia il 2 aprile 1952, è una filosofa italiana. Ha studiato alla Normale di Pisa, dove si è laureata nel 1976 con una tesi su Edmund Husserl.

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