Boschi e i “professorini”. I nostri consigli inutili

15 Mar 2015

Francesco Pallante

Quando il percorso della riforma costituzionale ancora era alle prime battute, il ministro Boschi invitò a un confronto un gruppo di giovani studiosi di diritto costituzionale. Fu un’occasione che i giovani costituzionalisti presero sul serio, apportando contributi, in parte favorevoli in parte critici, su tutti i profili della riforma. A conclusione della mattinata, con indubbia abilità mediatica, un comunicato stampa ministeriale diede conto dello spirito collaborativo dei “professorini”, segnando implicitamente le distanze dalle critiche che erano piovute sul governo dai “professoroni”.

imageQuando il percorso della riforma costituzionale ancora era alle prime battute, il ministro Boschi invitò a un confronto un gruppo di giovani studiosi di diritto costituzionale. Fu un’occasione che i giovani costituzionalisti presero sul serio, apportando contributi, in parte favorevoli in parte critici, su tutti i profili della riforma. A conclusione della mattinata, con indubbia abilità mediatica, un comunicato stampa ministeriale diede conto dello spirito collaborativo dei “professorini”, segnando implicitamente le distanze dalle critiche che erano piovute sul governo dai “professoroni”. Com’era facile immaginare, l’esito dell’incontro si risolse in quel comunicato stampa, mentre la riforma della Costituzione proseguiva imperturbabile per la sua strada.
Immutata è rimasta l’idea di consacrare in Costituzione l’avvenuto spodestamento del Parlamento dal centro del sistema, assicurando al governo, con il voto a data fissa, un ruolo decisivo nella stessa attività parlamentare. Una misura – si dice – volta a scoraggiare l’abuso della decretazione d’urgenza. Più realisticamente, una nuova arma nell’arsenale normativo del governo, che potrà, di volta in volta, scegliere la più efficace tra le molteplici già a sua disposizione. Un dato su tutti: oggi, sull’insieme dei provvedimenti normativi di rango primario, le leggi sono appena un quinto. Il resto è rappresentato da decreti-legge e decreti legislativi del governo. Nessun vincolo all’apposizione di questioni di fiducia, nessuna garanzia per le opposizioni a tutela del dibattito parlamentare (sedute-fiume, tempi contingentati, “canguri”, “tagliole”, “ghigliottine”); ora anche la certezza del voto sul provvedimento del governo entro 70 giorni: davvero il Parlamento è ancora titolare del potere legislativo?
Immutata è rimasta la struttura del nuovo Senato, un organo composto da eletti di secondo livello che, al contempo, operano senza vincolo di mandato e rappresentano le «istituzioni territoriali» di provenienza. Una contraddizione in termini logici, ancor prima che costituzionalistici. Poco grave, si dirà: in fondo si tratta di una Camera priva di poteri effettivi. Peccato non sia del tutto vero: eserciterà il potere di revisione costituzionale, il più elevato dei poteri costituiti. Come un organo possa essere titolato a fare le cose più importanti e non quelle meno importanti è un altro mistero della riforma. Ma soprattutto: con quale legittimazione democratica i senatori che non rappresentano la nazione interverranno sulla Carta fondamentale che regola la vita della nazione? Davvero un’ipotesi del genere è compatibile con la sovranità popolare sancita dall’articolo 1?
Immutata è rimasta l’incredibile complicazione della funzione legislativa. Una disposizione costituzionale di due righe («la funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere», attuale articolo 70) viene trasformata in un mostro giuridico, pieno di rimandi interni, che introduce una pluralità di procedimenti differenti senza che sia chiaro chi abbia l’ultima parola in caso di contrasto tra i due rami del Parlamento. Ma non era una riforma fatta per semplificare? E poi: davvero il bicameralismo è causa d’ingessatura del sistema? Anche qui, un dato: oggi l’approvazione di una legge ordinaria richiede mediamente meno di due mesi, salvo che per le leggi finanziarie – più lunghe e complesse – alle quali servono trenta giorni in più. Chi non riesce a stare al passo, paradossalmente, è proprio il governo, che sconta un arretrato in alcuni casi addirittura annuale nell’adozione dei regolamenti attuativi delle leggi. Davvero era necessario metter mano alla Costituzione? O sarebbe bastata un’attenta riorganizzazione dell’esecutivo?
Immutata, infine, è rimasta la ri-riforma delle autonomie territoriali, con la mancata soppressione delle regioni speciali, un anacronismo brucia-risorse, e la realizzata soppressione delle province, anello (mediaticamente) debole del sistema, ma in realtà punto di riferimento per i numerosi piccoli e medi comuni italiani. Non a caso, tra le pieghe del nuovo testo costituzionale compaiono gli «enti di area vasta», una nozione vaga ma che potrebbe prefigurare una proliferazione di enti sovracomunali monofunzionali, a ulteriore complicazione di un sistema già molto complicato.
In definitiva, con i “professorini” il Ministro ha fatto come con il Parlamento: che discutano pure, tanto alla fine, poi, decido io.

 

il Manifesto, 14 marzo 2015

* Francesco Pallante  è ricercatore di Diritto Costituzionale all’Università di Torino e coordinatore del Circolo LeG di Torino

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