Lo schiaffo alla sinistra Pd

21 Feb 2015

Come volevasi dimostrare. Purtroppo. I nuovi decreti sul jobs act non onorano le promesse che Renzi
fatte al parlamento, e in particolare a quella parte della sinistra dem che ha mediato fino alla resa
pur di non votare no al provvedimento. Recitando un atto di fede sul fatto che i futuri decreti avrebbero
migliorato il testo. Per questo al momento del voto sul provvedimento, lo scorso 25 novembre,
la minoranza Pd si era spaccata in due: pontieri allineati da una parte, irriducibili dall’’ altra.

 Come volevasi dimostrare. Purtroppo. I nuovi decreti sul jobs act non onorano le promesse che Renzi
fatte al parlamento, e in particolare a quella parte della sinistra dem che ha mediato fino alla resa
pur di non votare no al provvedimento. Recitando un atto di fede sul fatto che i futuri decreti avrebbero
migliorato il testo. Per questo al momento del voto sul provvedimento, lo scorso 25 novembre,
la minoranza Pd si era spaccata in due: pontieri allineati da una parte, irriducibili dall’’ altra. Di là il
capogruppo alla camera Speranza, l’’ ex segretario Cgil Epifani, l’’ ex ministro del lavoro Cesare
Damiano che si erano adoperati fino all’ ’ultimo per emendare il testo renziano. Di qua i 29 che erano
poi usciti dall’’ aula giudicando le modifiche ottenute quasi nulle: tra gli altri Stefano Fassina, Gianni
Cuperlo, Rosy Bindi, l’’ ex ministro Massimo Bray, Francesco Boccia, Alfredo D’’Attorre, Barbara Pollastrini.
In mezzo l’ ’ex segretario Bersani aveva espresso un sì «sofferente e per disciplina».
Negli uni e negli altri ieri si è fatta sentire la delusione e la rabbia. Per i ’pontieri’ la figuraccia
è mondiale: ’ci avevano messo la faccia’, per questo erano stati costretti a disertare le manifestazioni
della Cgil. Innanzitutto Renzi non cancella la norma che rende possibili i licenziamenti collettivi,
nonostante le richieste contenute nei pareri delle commissioni lavoro di Camera e Senato. «Siamo di
fronte a una scelta politica sbagliata e non rispettosa del dibattito parlamentare», tuona Damiano.
La diversificazione delle tutele tra vecchi e nuovi assunti, «sarà fonte di innumerevoli contenziosi».
Damiano prova ancora a vedere il bicchiere mezzo pieno, ma è un’impresa disperata: va bene la
netta distinzione tra lavoro autonomo e subordinato ma, dice, «è contraddittoria la coesistenza del
lavoro accessorio con quello a chiamata». Soprattutto il jobs act diminuisce le tutele in caso di licenziamento
«ma le risorse adeguate per gli ammortizzatori sociali per il momento non ci sono e creeranno
forti problemi di tutela nei casi crescenti di disoccupazione. Con il rischio di avere protezioni
inferiori a quelle attualmente esistenti».
È quello che hanno sostenuto i sindacati dall’ ’inizio. «Solo un ottimismo spinto alla deformazione
della realtà può vedere in questi decreti un passo in avanti significativo nella lotta alla precarietà»,
attacca D’’Attorre. «Colpisce la misura assolutamente limitata e parziale della riduzione di forme contrattuali
precarie rispetto alle ambizioni iniziali di una riforma che avrebbe dovuto addirittura introdurre
il contratto unico di inserimento». Ancora più netto il giudizio dell’ ’ex viceministro Fassina:
«Straordinaria operazione propagandistica del governo sul lavoro. Il diritto del lavoro torna agli anni
50. Oggi è il giorno atteso da anni… dalla Troika». I contratti precari, ragiona, «rimangono sostanzialmente
tutti: la sbandierata rottamazione dei co .co .co è avvenuta da anni, mentre i co .co .pro di
fatto restano. Ammortizzatori sociali e l’i’ ndennità di maternità non vengono estese». Insomma
i decreti del jobs act «dimostrano come l’ ’unico vero obiettivo dell’ ’intervento fosse cancellare la possibilità
di reintegro per i licenziamenti senza motivo». Sui licenziamenti collettivi, continua, viene
«ignorato il parlamento», sui licenziamenti disciplinari «è ignorato l’odg approvato dalla direzione
nazionale del Pd». Conclusione: «Non è una riforma: è una regressione». Ora la speranza sarebbe
una legge di iniziativa popolare «per un’’ innovazione progressiva della regolazione del lavoro». Ma
per questo i tempi sono biblici, e incerti anche grazie alla riforma costituzionale appena votata dalla
maggioranza.

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