Con la legge elettorale “rottameremo l’inciucismo perché la sera delle elezioni sapremo chi ha vinto”. Così, pochi giorni orsono, il Presidente del Consiglio.
Colpisce, in queste ore di decisive discussioni sull’Italicum, come, a vent’anni dal referendum del 1993, ancora ci si illuda di poter forzare la realtà del sistema politico per mezzo di artifici legislativi. Come se le leggi fossero formule magiche, pronunciando le quali si trasformano le cose. Da questo punto di vista, Mattarellum e Porcellum erano analoghi: entrambi, tra sistema dei partiti e sistema elettorale assumevano il primo come variabile dipendente dal secondo. Eppure, non c’è stata legislatura post ’93 che si sia conclusa senza la crisi della coalizione premiata dagli elettori. La ragione è evidente: si trattava di coalizioni elettorali, non politiche, concepite al solo scopo di imporsi sull’avversario, mettendo insieme anche chi insieme non poteva ragionevolmente stare. Ora, con l’Italicum, ci risiamo.
Il nodo è il rapporto tra rappresentanza e governabilità. Due principi costituzionali che – come ha ricordato la sentenza n. 1/2014 della Consulta – non sono esattamente sullo stesso piano. La nostra è, in primo luogo, una democrazia rappresentativa; poi, certo, necessita – come tutti i sistemi politici – di essere governata. Ma non al costo di trasformarsi in una “democrazia governativa”. La prerogativa delle Costituzioni novecentesche è stata la capacità di produrre inclusione sociale attraverso l’estensione della rappresentanza, a dispetto delle Costituzioni liberali dell’Ottocento, che si basavano sulla sua limitazione. Ma è stata una stagione di breve durata. Mai come nei trent’anni successivi alla seconda guerra mondiale le diseguaglianze sociali sono, a livello planetario, diminuite. Poi, la rotta si è invertita e oggi le 85 persone più benestanti del pianeta posseggono una ricchezza pari a quella dei 3,5 miliardi più indigenti. Una tendenza generalizzata, che coinvolge appieno l’Italia.
Ma, è sul piano storico che sono all’opera le mistificazioni più evidenti: il dialogo politico che, in epoca di proporzionale, ha portato – pur tra enormi conflitti – l’Italia dal sottosviluppo al G7 è stato volgarmente tacciato di “consociativismo” e “inciucismo”; mentre l’immobilismo politico che, in epoca di maggioritario, ha accompagnato il declino italiano degli ultimi vent’anni è stato celebrato come “democrazia decidente”. La realtà è che il maggioritario è stato un gioco a somma negativa: è riuscito nel capolavoro di diminuire, nel contempo, rappresentatività e governabilità.
Ci si chiede come si possa pensare di governare un Paese senza rappresentarne i cittadini. A furia di escludere, si è arrivati a una Camera in cui il 55% dei seggi è andato a un partito votato dal 25% degli elettori! E se la smettessimo di credere alle formule magiche e tornassimo a fare i conti con la realtà? L’Italia è un Paese attraversato da fratture numerose e profonde. Si può far finta di niente: negare il pluralismo in nome di astratte entità metafisiche (la Nazione, come nell’Ottocento…), anestetizzare la società, ridurre la politica a indicibili patti per la gestione del potere. Oppure si può prenderne atto: accettare il pluralismo come una ricchezza, liberare le energie sociali in conflitto, riscoprire la politica come arte della mediazione tra visioni del mondo contrapposte ma alla ricerca di punti comuni.
Per questo non serve una legge elettorale che attribuisca la vittoria la sera delle elezioni. Serve una legge che sia capace di dar voce a chi oggi non ce l’ha (e pensa di non poterla più avere). Una legge che esprima non un finto vincitore, ma veri competitori, capaci di concorrere democraticamente alla determinazione della politica nazionale (art. 49 Cost.), e non soltanto di accordarsi sulla sopravvivenza politica di chicchessia. Una legge elettorale, insomma, che la sera delle elezioni ci consenta di andare, molto semplicemente, a dormire.
Illustre Presidente Renzi,
in un passaggio della lettera al Pd dopo il caso dei vigili romani scrive: “Rottameremo le liste bloccate e insieme a loro rottameremo l’inciucismo perché la sera delle elezioni sapremo chi ha vinto. E chi vince avrà la maggioranza per governare senza ricatti dei partitini”. Sacrosanto, ma ritengo che per farlo sarebbe stata preferibile una legge elettorale a doppio turno sì, ma sul modello di quella francese, prevedendo contestualmente – non sarebbe stato affatto scandaloso – l’elezione diretta, escludendo dall’elezione i condannati in via definitiva indipendentemente dalla pena a loro inflitta, del Presidente della Repubblica. Davvero, non sarebbe stato affatto scandaloso. Anzi, meglio così piuttosto che lo scempio andato in scena in occasione delle ultime elezioni presidenziali.
L’errore è nel ritenere che problematiche politiche possano trovare soluzione in meccanismi istituzionali, ovvero che una buona pratica politica sia automatica conseguenza di una buona ingegneria istituzionale. Una democrazia, in realtà, vive in funzione della cultura che la incarna e i differenti modelli istituzionali (buoni o meno buoni che siano) funzionano solo se interpretano principi e valori preesistenti nelle culture che li generano. La storia, anche recente, ci dimostra come la democrazia non sia un bene esportabile. L’estraneità culturale, infatti, ne ha determinato il fallimento ovunque sia stata “importata” senza una adeguata metabolizzazione storico-culturale. Le Costituzioni vivono nella storia, nella tradizione, nella cultura e nel sentimento dei popoli. Al di fuori di quel contesto, da cui traggono vitalità e vigore, sono sterili esercizi accademici. Purtroppo la Costituzione secondo Matteo incarna perfettamente il vuoto valoriale e culturale che la sottende.
Lo scandalo è che si ottenga la maggioranza con un “partito” organizzato in modo mafioso e che fa capo ad un delinquente, oltre che un governo che in Emilia con questa legge elettorale permette di governare con il 15-20%degli aventi diritto al voto a facente capo ad un partito compromesso con le organizzazioni mafiose (Roma)!!!
Non è certo un problema di “legge elettorale” quello che porta il Paese ad un degrado e declino che pare non avere fine.
Ma è la pessima qualità media dei delegati al Parlamento. Qualità che è andata peggiorando dal 45 ad oggi al punto da portare dove stavano Calamandrei, Einaudi, De Nicola e Croce, individui inqualificabili come Razzi e Scilipoti, Cuffaro e Cosentino, De Gregorio e Genovese oltre a Clini, Scaiola, Dell’Utri, Previti e B..
Ai Cittadini non manca la legge perfetta, ma manca la possibilità di concretizzare il dissenso, di concretizzare in processi costruttivi e alternativi la consapevolezza della inadeguatezza di questa classe dirigente (casta).
Quando le indagini demoscopiche più professionali e rigorose rilevano che il 97% della Cittadinanza rifiuta, diffida e disprezza l’offerta politica, vuol dire che è consapevole della sua inadeguatezza, ma non sa come porvi rimedio.
E questa consapevolezza è confermata dall’analisi dei flussi e dell’astensione dal voto: quando ormai un 50% non vota o non esprime voto valido, a cui va aggiunto un altro 10% (del corpo elettorale) di voto chiaramente solo “contro” (D’Arcais ha definito “uno sputo in faccia alla casta” il voto al M5S), mentre nel restante 40% c’è da tener conto di chi vota solo per il “meno peggio o male minore”: manca quasi totalmente il voto “per” a conferma del 97% che rifiuta!
Vuol dire che nessuno sa accogliere la richiesta di cambiamento reale, non solo di nomi o immagine, ma di rigore morale e culturale, di coerente orientamento al “bene comune”.
Vuol dire che nessuno offre al questa Cittadinanza la possibilità di sostituire la “casta” con Persone più intrinsecamente adatte a condurre un Paese e il suo Popolo verso il progresso.
Il POpolo ha bisogno di guide! Ed in passato in queste condizioni sono sorti fascismo e nazismo! E grazie alla sorte anche da quelle parti mancano personalità conformi!
Ed io mi rivolgo a Voi, ceto colto e riflessivo, a Voi che ci ammanite i Vostri interventi così carichi di saggezza e buonsenso, di competenze e di sincero orientamento al bene comune, fate un passo avanti, non ci bastano i Vostri interventi teorici, dovete accollarvi l’onere della conduzione del Paese, ruolo che per “destino naturale” solo a Voi compete e non ad altre categorie di persone! Solo Voi potete riportare in Parlamento, luogo-istituzione dal quale dipendono le sorti del Paese, il rigore morale e culturale dei Costituenti!
Paolo Barbieri
Quando si forma una maggioranza di coalizione, occorre sempre prevedere di accogliere istanze di tutti i componenti della coalizione. Ovviamente tra le istanze accolte saranno prevalenti quelle di chi ha ottenuto più voti e quindi guiderà la coalizione, ma certamente anche i partiti più piccoli vedranno realizzare alcuni dei loro obiettivi, o quelli considerati più importanti o, con più probabilità, quelli ritenute più coerenti con il programma del resto della coalizione. Ma dovrà per forza essere così, perché altrimenti non si capisce per quale motivo un piccolo partito dovrebbe entrare a far parte di una coalizione.
Succede così in tutti i paesi nei quali si formano governi di coalizione, dalla Gran Bretagna alla Germania, senza che nessuno parli di “ricatti” riferendosi alle istanze degli alleati minori.
Che è la cosa che più mi disturba nelle parole dell’attuale presdelcons: la mancanza di volontà di operare una sintesi tra i programmi di diverse forze politiche.
Le elezioni politiche non sono una partita di basket, nella quale una delle due squadre in campo deve vincere, altrimenti si giocano i tempi supplementari e alla fine sappiamo tutti quale è la squadra che ha vinto e quale è la squadra che ha perso. Le elezioni politiche costituiscono la modalità attraverso la quale il popolo sovrano elegge i propri rappresentanti al Parlamento, con il mandato di esercitare il potere legislativo in rappresentanza della nazione.
Che è cosa diversa dal mandato a nominare un Governo e votare le leggi che il Governo propone.
come operare una sintesi tra proposte politiche è diverso dal subire i ricatti di questo o quel partito.
Cari tutti,
a me pare vi sfugga la necessità che la politica deve servire a gestire la società, non a censire le opinioni dei milioni di cittadini che la compongono. Non a caso, ogni sistema democratico prevede una maggioranza ed una minoranza, un governo ed un’opposizione, in un quadro imprescindibilmente duale. La legittima, ed indispensabile, pluralità di visioni presenti nella società deve trovare una sintesi in azioni di governo quotidiane, possibilmente inserite in una visione di medio-lungo termine, che tenda alla realizzazione di un modello. Le consultazioni dei cittadini attraverso le elezioni non sono sondaggi di opinione, ma strumenti per compiere quella sintesi, strumenti che possono risultare più o meno efficaci. Rappresentatività e governabilità non sono alternative: la prima deve servire alla seconda, altrimenti la società non funziona. Per troppi anni nel secolo scorso la sinistra non si è posta il problema del Governo, delegandolo alla allora classe dominante, e limitandosi a sollecitare, a volte con successo, riforme e a gestire, spesso in maniera pregevole, realtà locali. Non sono affatto nostalgico di quella stagione, perché da quando Berlinguer pose il problema del Governo per la sinistra, il Paese fu trascinato nel periodo più buio ed infame della sua storia.
Io c’ero e lo ricordo bene.
Ora la responsabilità della sinistra è quella di costituire una solida e stabile proposta di Governo, senza subalternità verso nessuno. Da qui la necessità di dotarsi di strumenti anche elettorali che permettano di agire in modo efficace. Come cittadino non ho affatto voglia di delegare il mio potere ad un deputato, senza sapere prima che uso intende farne. Non ho nostalgia della alchimie postelettorali nelle quali soprattutto le forze marginali assumevano un peso sproporzionato alla loro consistenza. L’elaborazione del progetto deve avvenire prima, in forma partecipata, democratica, pluralista, ma assolutamente finalizzata alla sua realizzabilità dopo le elezioni. Non mi fa alcuna paura questo processo, piuttosto temo di delegare l’unico potere che ho a qualcuno che lo gestirà al di fuori di ogni controllo. La casta nasce dal troppo potere delegato. Quindi, coraggio! Partecipiamo all’elaborazione del progetto e poi, se risultiamo maggioranza, spingiamo perché venga realizzato senza infingimenti. La sera delle elezioni deve segnare la fine di un processo di elaborazione e l’inizio della sua esecuzione, non deve essere l’inizio di un’estenuante e poco trasparente trattativa tra eletti.
Resto sempre perplesso nel leggere confusioni tra i poteri dello stato. Sostenere che la società funziona se la rappresentatività serve alla governabilità e non funziona in caso contrario, implica stabilire una subordinazione del potere legislativo, esercitato dai rappresentanti dei cittadini, al potere esecutivo esercitato dal Governo. Che era proprio l’obiettivo della riforma costituzionale varata dal Governo Berlusconi nel 2005, e che va contro il principio della separazione dei poteri che dovrebbe essere alla base di una democrazia moderna.
Se per qualsiasi forza politica (e non solo per la sinistra) è legittimo l’obiettivo di costituire una solida e stabile proposta di Governo, questo va perseguito attraverso la ricerca del consenso e non attraverso la costruzione di alchimie elettorali. E il consenso si acquisisce attraverso la presentazione di un programma condiviso e condivisibile dall’elettorato, non mettendo delle limitazioni alla coscienza e all’attività dei rappresentanti.
Noi cittadini non possiamo sapere se le persone da noi delegate agiranno in modo conforme alle intenzioni che avevamo quando le abbiamo votate. Chi di noi ha votato per il Partito Democratico non lo ha fatto certamente con l’intenzione di vederlo collaborare con Forza Italia, eppure questa è la realtà che ci troviamo davanti, e questo è ciò che sta facendo proprio chi viene a proporci vincoli di mandato: se tale vincolo esistesse oggi, quasi tutti gli eletti del PD avrebbero dovuto decadere da deputati.
Ma al di là di fattori contingenti, noi comunque non possiamo prevedere le necessità che si paleseranno nel corso di una legislatura, quindi non possiamo vincolare i nostri rappresentanti ad un determinato comportamento per cinque interi anni.
Non vorrei mai che si confondesse l’utilizzo del potere connesso alla rappresentanza con l’appartenenza perinde ac cadaver ad un partito. E se la linea del partito cambia nel corso della legislatura, a chi deve fedeltà il deputato? Al nuovo segretario del partito o a me che lo ho eletto?
Le estenuanti trattative tra forze politiche diverse sono la realtà di molti paesi in Europa: non vedo perché queste debbano essere un fattore negativo solo per noi italiani. In Germania il governo è stato costituito ben due mesi dopo le ultime elezioni, e tra forze politiche che si presentavano come alternative, eppure non possiamo certo dubitare né della democraticità né dell’efficienza o dell’efficacia del Governo e del Parlamento della Repubblica Federale Tedesca.
Mettiamoci d’accordo: cercare di collaborare con l’avversario elettorale è un deprecabile inciucio o la ricerca di una maggioranza post voto è una pratica addirittura auspicabile, come in Germania?
Qui si grida allo scandalo perché si vota una riforma elettorale, quindi le regole del gioco, con Forza Italia e poi si vorrebbe delegare ai parlamentari addirittura la gestione della legislatura! Mi dispiace, ma non mi fido. Io pretendo di sapere cosa farà del mio voto il rappresentante eletto. Cinque anni, o quattro, non sono l’eternità: sono il tempo giusto per cercare di realizzare un progetto. E se la realizzazione fallisce, si torna a votare anche prima della scadenza. La libertà di coscienza dei delegati, che non metto affatto in discussione, non può essere assoluta, altrimenti diventa irresponsabilità. C’è un progetto e si esegue quello, non altro. Nel frattempo i partiti devono essere strutture permeabili e non consorterie chiuse ed impenetrabili: questa sì che è una condizione imprescindibile.
Mi sarebbe piaciuto leggere una risposta alle obiezioni relative alla separazione dei poteri, ma purtroppo non l’ho avuta.
Riguardo alla tematica del vincolo di mandato, io non ho mai parlato di inciuci, ma ho semplicemente evidenziato che il programma del Partito Democratico non prevedeva alleanze con Forza Italia o il Nuovo Centro Destra, ma prevedeva la realizzazione di quanto contenuto nel manifesto “Italia Bene Comune”. Per esemplificare quanto intendo sostenere, riporto dal paragrafo “Lavoro” del programma:
“Il primo passo da compiere è un ridisegno profondo del sistema fiscale che alleggerisca il peso sul lavoro e sull’impresa, attingendo alla rendita dei grandi patrimoni finanziari e immobiliari. Quello successivo è contrastare la precarietà, rovesciando le scelte della destra nell’ultimo decennio e in particolare l’idea di una competitività al ribasso del nostro apparato produttivo, quasi che rimasti orfani della vecchia pratica che svalutava la moneta, la risposta potesse stare nella svalutazione e svalorizzazione del lavoro. Il terzo passo è spezzare la spirale perversa tra bassa produttività e compressione dei salari e dei diritti, aiutando le produzioni a competere sul lato della qualità e dell’innovazione, punti storicamente vulnerabili del nostro sistema. Quarto passo è mettere in campo politiche fiscali a sostegno dell’occupazione femminile, ancora adesso uno dei differenziali più negativi per la nostra economia, in particolare al Sud”
Il PD ha approvato il jobs act. Quanto questo sia coerente con il manifesto lascio giudicare a chi legge. Altrettanto per discriminare quanto ciò sia coerente con chi propone il vincolo di mandato.
Se io eleggo dei rappresentanti al Parlamento, allora è ovvio che a loro delego la gestione del Potere Legislativo. Non ho ben capito il significato del “non fidarsi” dei propri rappresentanti. Se ciò significa esercitare un controllo sul loro operato e in base a quello accordare o ritirare il consenso alle successive elezioni, allora credo che siamo tutti d’accordo. Ma se ciò significa trasferire la fiducia dal rappresentante al segretario di partito o al capo del governo, allora abbiamo perso di vista proprio il concetto stesso di rappresentanza.
Cinque anni non sono l’eternità: è vero, ma nel corso dei cinque anni possono accadere eventi imprevedibili, come uno choc petrolifero o una crisi dell’economia mondiale. Eventi non di fantasia, ma che abbiamo visto concretizzarsi nel corso degli anni. In quel caso è evidente che occorre quanto meno rimodulare i progetti iniziali, ma i rappresentanti sono lì anche per gestire l’imprevisto.
La separazione fra i poteri non può essere assoluta. Tant’è che il Governo deve avere la fiducia del Parlamento, quindi deve essere a questi politicamente omogeneo. Una conflittualità tra i due poteri non è auspicabile e, se capita, va risolta con nuove elezioni. In alternativa, c’è la paralisi, come al momento negli USA. Costringere chi ha visioni diverse della società a collaborare è altamente inefficiente: davvero si va al pensiero unico. Esempio vicino: la Germania, dove le differenze tra cristiano democratici e socialisti diventano sempre più sfumate.
Quanto sta succedendo in Italia è frutto di una distorsione della politica provocata prima da 40 anni di potere DC senza una vera alternativa, quindi dalla presenza del gigantesco conflitto d’interessi di Berlusconi.
Se vogliamo cercare di rimetterci in carreggiata dobbiamo ristabilire una normale dialettica tra visioni del mondo diverse, contenute però in un ambito di regole condiviso. Con questa lettura tutto diventa molto più comprensibile: l’anomalia Berlusconi non durerà in eterno: già ora è quasi del tutto disinnescata. Bisogna insistere per costruire un sistema basato su due poli alternativi, entrambi legittimati a gestire la società. Ai cittadini il compito di non farsi espropriare le prerogative di partecipazione alla elaborazione dei progetti, nonché di controllo della loro esecuzione.
Ho letto con avidità l’articolo, quì sopra, di Pallante, quanta verità e saggezza. Ben venga una legge elettorale come espressa: che ci consenta di andare a dormire tranquilli. alfredo