Il significato di quelle bombe

29 Ott 2014

Quanto è servito far declinare le proprie generalità a un presidente della Repubblica e farlo giurare di dire la verità, solo la verità, niente altro che la verità? Quanto è stata utile la deposizione di Giorgio Napolitano nel processo sulla trattativa Stato-mafia?
L’udienza più solenne — annunciata anche come la più tormentata — ha riservato una sorpresa che nessuno si aspettava. Il testimone eccellente ha risposto a tutte le domande alle quali doveva rispondere «allargando » perfino il confine tracciato dalla Corte di Assise di Palermo, ha confessato la sua apprensione per quegli avvenimenti tragici di venti e passa anni fa, non ha mai pronunciato una sola volta la parola «trattativa» o la parola «patto» ma ha ricordato ciò che fu decifrato «al più alto livello politico» la notte fra il 27 e il 28 luglio del 1993. La notte delle bombe alle basiliche di Roma, la notte dell’attentato in via Palestro a Milano, la notte del lungo blackout a Palazzo Chigi quando il presidente del Consiglio Ciampi ebbe paura di un golpe. In una frase di Napolitano c’è la «chiave » della sua deposizione davanti ai pubblici ministeri di Palermo, una sola frase: quella dell’«aut aut» della mafia allo Stato.
Giorgio Napolitano, che al tempo era il Presidente della Camera, ha sostanzialmente detto che una fazione della mafia siciliana stava minacciando le Istituzioni: o fate i conti con noi o continuiamo a seminare terrore. Un ricatto. L’ha detto esplicitamente. Domanda del pm: ha avuto la sensazione che ci fu un ricatto? Il Presidente: «Sì».
Il Capo dello Stato nei fatti ha confermato ciò che i magistrati siciliani hanno sempre ipotizzato fin da quando sono iniziate le indagini sulla trattativa, cioè che i Corleonesi di Totò Riina avevano violentemente «avvisato» l’Italia pretendendo in cambio qualcosa per fermare le stragi. Ecco perché la testimonianza del Presidente è stata valutata «importante» dai pm di Palermo («Abbiamo acquisito ulteriori elementi di conoscenza anche a conforto della nostra tesi processuale») e si è perfettamente incastrata nella ricostruzione fin qui fatta dal pool antimafia che indaga sui negoziati dopo la morte di Falcone e Borsellino.
Cosa significa esattamente quello che ha riferito il Presidente? Significa che quel ricatto c’è stato e quel ricatto è una «prova» che questo processo ha ragione di esistere, non è una fantasiosa congettura, non è un’ipotesi ricavata da suggestioni e condizionamenti ideologici o peggio territoriali, il famoso «rito palermitano ». È stato il Capo dello Stato, in tutta la sua autorevolezza (e potremmo aggiungere anche con tutta la sua disponibilità) a certificarlo in una severa sala del Quirinale adibita per l’occasione in una molto speciale aula giudiziaria.
Non erano partite proprio dal ricatto allo Stato i primi passi dell’inchiesta sulla trattativa? Non avevano preso spunto dalle ansie di alcuni uomini politici — di morire, ammazzati — come gli ex ministri Calogero Mannino e Carlo Vizzini le prime investigazioni sul generale Mori che aveva contattato l’ex sindaco Ciancimino per catturare Riina? È la prima parte dell’indagine, l’inizio.
Come siano andate le cose poi non è stato chiesto naturalmente a Giorgio Napolitano (né pm e né avvocati avrebbero potuto chiederlo per i limiti imposti dalla Corte) ed è comunque materia che non ha mai neanche sfiorato l’attuale Capo dello Stato, coinvolgendo e risucchiando nel gorgo dell’inchiesta altri personaggi. Alcuni imputati oggi come l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino, altri ormai deceduti come l’ex Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro e l’ex capo della polizia Vincenzo Parisi. Lo ripetiamo: la parola «trattativa» non è mai rimbombata ieri al Quirinale ma nella testimonianza del Presidente è stato più volte rievocato il nome del suo consigliere giuridico Loris D’Ambrosio, l’amico di Giovanni Falcone stroncato da un infarto nei giorni della discovery delle carte — l’estate del 2012 — sul patto Stato-mafia con le insistenti telefonate di Mancino a D’Ambrosio per tentare di far «coordinare» meglio le indagini. Nelle intenzioni, Mancino voleva dire: farle spostare da Palermo in un’altra procura. Anche su Loris D’Ambrosio, che gli aveva scritto di «indicibili accordi» sulle vicende siciliane fra l’89 e il ‘93, Giorgio Napolitano ha ricordato e concordato sulla «drammaticità» di quelle rivelazioni. Quali fossero quegli «indicibili accordi» il Capo dello Stato — come aveva già annunciato nel novembre del 2013 con un messaggio alla Corte di Assise — non l’ha mai saputo. Ma ha rivelato di averle condivise con il suo consigliere, quelle inquietudini e quelle pene. In qualche modo un’altra conferma — così almeno l’hanno considerata i pubblici ministeri — del «clima» che aveva respirato Loris D’Ambrosio nella stagione delle stragi.
Come la testimonianza del Presidente si «inserirà» concretamente nel processo lo vedremo, intanto possiamo parlare del «valore» che ha avuto. E, probabilmente, servirà anche a spegnere quelle polemiche che hanno accompagnato per mesi il conflitto istituzionale nato sulle quattro telefonate intercettate (e poi distrutte per decisione della Corte Costituzionale) fra Mancino e Napolitano, telefonate assolutamente ininfluenti per l’inchiesta.
Per il resto la giornata al Quirinale ci ha riservato un’altra sorpresa. Nessuno «spettacolo » sul Colle come molti temevano, nessuno schieramento imponente di telecamere. E neanche una televisione straniera.

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