La Costituzione e il governo stile executive

06 Ago 2014

La maggioranza deve essere prona, l’opposizione spuntata, le Camere sotto la sferza come vecchi ronzini ai quali si detta addirittura l’andatura (il “timing”) e il percorso (la “road map”). Il presidente del Consiglio usa un linguaggio sprezzante nei confronti di chi non ci sta (“ce ne faremo una ragione”; “asfalteremo”; “piaccia o non piaccia”, “porteremo a casa”, ecc.). La qualità del linguaggio è un segno spesso più eloquente di tanti discorsi programmatici. È la soglia dalla quale ci si può affacciare per vedere senza schermi l’animo altrui. Il ministro per le riforme, a completamento dei segnali rivolti a chi deve intendere, ha ammesso che, in un secondo momento si aprirà la questione del presidenzialismo, che da tempo cova sotto la cenere.

governorenziDEL Senato della nuova era, tutto il dicibile è stato detto e ridetto. Ora non si tratta più d’idee, ma di numeri, di patti misteriosi che “tengono” o “non tengono”, di “aperture” o “chiusure”, cioè di strategie politiche. Interessa, invece, lo sfondo: ciò che crediamo di comprendere della nostra crisi e delle sue forme. Che valore hanno il tanto pervicace impegno per “le riforme” costituzionali e l’altrettanto pervicace impegno contro? Pro e contra, innovatori e conservatori. I pro accusano i contra di non voler assumersi le responsabilità del cambiamento che il momento richiede e di difendere rendite di posizione dissimulandole come difesa della Costituzione. I contra, a loro volta, accusano i pro di coltivare la vacua ideologia del nuovo e del fare a ogni costo, in realtà servendo interessi ai quali ostica è la democrazia. Le ragioni della divisione sono profonde, spiegano l’asprezza del contrasto e giustificano le preoccupazioni.

LE costituzioni sono al servizio della legittimità della politica e una costituzione illegittima non può che produrre politiche a loro volta illegittime. Ma, la legittimità divisa è un concetto contraddittorio che porta in sé la radice della dissoluzione. La funzione delle costituzioni è conferire accettazione diffusa alle istituzioni e alle politiche che su di esse si fondano. La Costituzione che nascerà dalle condizioni presenti — se nascerà — sarà figlia di una legittimazione dimezzata e svolgerà solo a metà la sua funzione legittimante e, per l’altra metà, svolgerà una funzione delegittimante. Lo stesso è per la Costituzione ora vigente ma contestata — se sarà questa a sopravvivere ai riformatori —. In ogni caso, possiamo aspettarci un periodo di vita politica instabile e “de-costituzionalizzata”, cioè determinata più dai rapporti di forza e dalle convenienze che non dal rispetto d’un patrimonio di principi e regole del vivere comune. In parte è già così. Il processo è in corso da tempo. Ciò che una volta avrebbe creato scandalo, oggi è quasi generalmente accettato. Che cosa, se non questo, significano i discorsi circa la “costituzione materiale” o “di fatto” che si è sovrapposta a quella ufficialmente in vigore, o circa lo “stato d’eccezione” che giustifica spostamenti negli equilibri tra i diversi poteri e rende accetto, quasi senza battere ciglio, che un parlamento eletto incostituzionalmente metta mano, addirittura, alla modifica della Costituzione? Sono state create le condizioni del regno della necessità, dove, di fatto, si afferma la forza, e la debolezza soccombe senza lo scudo del diritto. L’incostituzionalità, oggi, è routine.
Latente, c’è un conflitto profondo che si manifesta per ora su singoli punti, importanti ma secondari. Il declassamento del Senato è uno di questi. Il disegno generale che unifica i punti sparsi s’è mostrato, inaspettatamente, durante il dibattito sulla riforma, quando una senatrice della maggioranza, per invitare l’opposizione a “volare alto” e a non perdersi nei dettagli, ha chiarito il punto: si tratta, secondo noi (noi, i riformatori), di un passo necessario per giungere a rovesciare il rapporto tra il Parlamento e il Governo e fare del primo l’esecutore fedele delle decisioni del secondo. Non che, da tempo, non sia in atto la tendenza a ridurre le Camere a registratori di decisioni dell’esecutivo. Ma, ora si tratta di costituzionalizzare la sudditanza: dal libero Parlamento della vecchia e stantia tradizione democratica, al libero Governo dell’epoca in cui “executive” è sinonimo di successo (anche sui treni ad alta velocità, dove non c’è una classe “legislative”). Ricordiamo un presidente del Consiglio dire, qualche tempo fa, essere venuto il momento, per gli esecutivi, di “educare” i parlamenti.
Se questo è l’obiettivo, si tratta non di riforma ma di capovolgimento della Costituzione. La legge elettorale che “la sera stessa delle elezioni” deve incoronare il capo del Governo, oggi anche capo del “suo” partito, nella carenza di garanzie e contrappesi istituzionali e di democrazia interna ai partiti, e nell’abbondanza, invece, di corse e rincorse al conformismo; l’elezione di nominati; gli sbarramenti vari, molto alti: tutto ciò concorre all’obiettivo. La maggioranza deve essere prona, l’opposizione spuntata, le Camere sotto la sferza come vecchi ronzini ai quali si detta addirittura l’andatura (il “timing”) e il percorso (la “road map”). Il presidente del Consiglio usa un linguaggio sprezzante nei confronti di chi non ci sta (“ce ne faremo una ragione”; “asfalteremo”; “piaccia o non piaccia”, “porteremo a casa”, ecc.). La qualità del linguaggio è un segno spesso più eloquente di tanti discorsi programmatici. È la soglia dalla quale ci si può affacciare per vedere senza schermi l’animo altrui. Il ministro per le riforme, a completamento dei segnali rivolti a chi deve intendere, ha ammesso che, in un secondo momen-
to si aprirà la questione del presidenzialismo, che da tempo cova sotto la cenere.
Esiste allora un problema di democrazia? Non ci si crede, perché è difficile prendere sul serio queste pulsioni, incarnate nell’attuale compagine di governo che, attraverso il suo capo, si sforza visibilmente d’apparire accattivante. Ma, le regole costituzionali sono fatte per valere nel tempo. Possiamo sapere chi verrà dopo? E che dire se queste tendenze si saldassero a interessi e disegni di pochi potenti, a danno dei molti impotenti?
I nostri riformatori che così parlano e agiscono, ne siano consapevoli o no, potranno essere un giorno ascritti alla storia dell’antiparlamentarismo, una lunga e nefasta storia iniziata negli ultimi decenni dell’Ottocento e proseguita nel tempo della Repubblica. Già subito, nel 1948, dopo le elezioni del 18 aprile, si sostenne, quattro mesi dopo la sua entrata in vigore, che la Costituzione era morta e sepolta sotto la valanga di voti che aveva consegnato il Paese alla Dc. La Costituzione “consociativa”, avente cioè nel Parlamento il suo luogo d’elezione, era superata — si disse — da una costituzione materiale il cui fulcro era il governo e il suo partito. De Gasperi, com’è noto, non aderì, anche perché non considerò mai la Dc partito “suo”, nel senso odierno. La “legge truffa” (poca cosa rispetto a certe attuali proposte in materia elettorale) fallì. Le maggioranze furono di coalizione, le coalizioni avevano il loro fulcro in Parlamento e la Costituzione resse all’urto. Da allora, però, non si è cessato d’immaginare, progettare e perfino tramare contro l’odiato consociativismo, attribuito come peccato originale a una Costituzione che, in verità, è soltanto un’onesta, per quanto sempre perfettibile, costituzione non di una oligarchia ma della democrazia pluralista. Sotto la pressione delle crisi che viviamo, quelle proposte sono ritornate d’attualità, rivestendosi — ora come allora — di efficientismo e di colore patriottico, “nazionale”. La vocazione totalizzante è una caratteristica comune a tutte le forme di antiparlamentarismo, una vocazione lampante quando il capo d’un partito vuole essere l’incarnazione del “partito degli italiani” (versione Berlusconi) o del “partito della nazione” (versione Renzi).
L’antiparlamentarismo ha le sue ragioni: la corruzione, l’affarismo, l’opportunismo, l’inefficienza, la paralisi decisionale, l’incompetenza, il “cretinismo parlamentare” (Marx-Engels, 1852), i “ludi cartacei” (Mussolini, 1926). Chi potrebbe negarle e chi non saprebbe aggiungerne altre? La storia è antica, ma l’illusione di un governo dalle mani libere e perciò stesso benefico, altrettanto. In una società segnata da tante profonde fratture, la nostra, possono bastare l’attivismo, il giovanilismo, il futurismo ottimistico sempre ostentato e regolarmente smentito, gli annunci e le promesse quasi sempre rimangiate, il nascondimento delle prove che ci dobbiamo preparare ad affrontare? Quale natura dimostrerebbe a breve il preteso governo dalle mani libere? O un qualche populismo o un qualche autoritarismo, oppure l’uno e l’altro insieme. Inevitabilmente, ciò sarebbe la dissimulazione del vero volto di un potere che lo sostiene da dietro le quinte: il volto di un’oligarchia oggi nobilitata dall’avallo europeo (“ce lo chiede l’Europa”, ma quale tra le diverse, possibili Europe?).
Ancora una volta, pare d’essere di fronte all’eterno dilemma: oligarchia dalle maniere sbrigative o democrazia dall’andatura pesante. Coloro i quali, nonostante tutto, preferiscono vivere nella seconda, devono assumersene responsabilmente il peso, sapendo che gli egoismi di parte, l’indisponibilità ai compromessi, il frazionismo infinito non fanno che portare acqua al mulino dei loro nemici; che la corruzione dilagante è un’alleata preziosa d’un senso comune che invoca le maniere spicce, e che solo nella politica della giustizia sociale e dell’uguaglianza — ciò che la Costituzione chiama “solidarietà” — si trovano gli antidoti alla chiusura oligarchica del potere.

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