L’intervento di Massimo Mucchetti

17 Lug 2014

Signora Presidente, onorevoli colleghi, la discussione generale sul disegno di legge di riforma costituzionale approvato dalla 1ª Commissione non puo` non soffermarsi sulla questione della leadership del Paese, su come si forma e si esercita. Ci sara` tempo e modo, quando si esamineranno gli emendamenti, di affrontare i punti specifici. La leadership, dunque. Le opportunita`. I rischi. Diversamente dalla Costituzione che venne elaborata e approvata con ampie convergenze da un’Assemblea costituente, questa riforma del Parlamento, che la cambia in punti sostanziali, prende avvio da un accordo al vertice stipulato extra moenia nella sede di un partito (il Partito Democratico) da due persone, nessuna delle quali fa parte delle Camere. Questo accordo resta l’architrave del processo decisionale in atto e viene evocato dai due contraenti ogni volta che la dialettica parlamentare ne mette in forse i punti principali. O meglio, quelli che i contraenti ritengono debbano essere i punti principali perche´ nessuno, al di fuori della cerchia ristretta dei piu` fidi collaboratori, puo` dire in coscienza di conoscerne con esattezza i contenuti. Questo accordo si e` tradotto in una riforma del Parlamento scritta dal Governo. Una prassi che in altri tempi sarebbe stata ritenuta scandalosa. «Solo
il Parlamento puo` riformare il Parlamento», si sarebbe detto. Ma oggi un elevato numero di persone, compresa la maggioranza dei commentatori, ritiene che l’iniziativa possa, anzi debba, spettare al Governo. Questo mutamento di opinione testimonia quanto sia cambiato, rispetto a settant’anni fa, il rapporto fra il corpo elettorale e gli eletti.
Nel secolo scorso il corpo elettorale aveva fiducia negli eletti (al riguardo condivido le parole del senatore Morra) e gli eletti in tutto l’Occidente quella fiducia l’avevano guadagnata con le politiche economiche e
sociali di matrice rooseveltiana. La democrazia ha avuto ed ha tuttora diverse versioni (presidenziale, semipresidenziale, parlamentarista), ma tutte hanno alimentato la crescita della classe media che consentı` di reggere bene e poi di vincere il confronto con il blocco sovietico sul piano internazionale e di vincere anche sul piano interno respingendo gli estremismi di destra e, ancor piu`, di sinistra con l’effetto di incentivare, fra l’altro (utile effetto collaterale), il processo di democratizzazione dei partiti comunisti specialmente nell’Europa mediterranea.
Negli anni Cinquanta, in un Paese come il nostro che stava passando dall’agricoltura all’industria come attivita` prevalente, dalle campagne alle citta` come luoghi della vita associata, la democrazia parlamentare, il parlamentarismo, era ritenuta dalla totalita` dei cittadini il rimedio ai guasti della dittatura e democrazia parlamentare voleva dire potere distribuito. Certo, la leadership del Governo era concentrata nella Democrazia
Cristiana e quella dell’opposizione nel Partito Comunista, ma quelle leadership erano istituzionalmente contendibili, ancorche´ soltanto all’interno dei rispettivi campi, data la divisione del mondo in blocchi e la societa`
italiana scopriva la ricchezza umana, prim’ancora che politica, delle associazioni libere tra datori di lavoro, dipendenti, artigiani, commercianti, professionisti.
C’era lo Stato e c’erano i corpi intermedi. Talvolta temuti, sempre tenuti in alta considerazione anche per la loro capacita` di orientare il voto in elezioni fatte con il sistema proporzionale. Ma con il tempo tutto
e` cambiato. L’evoluzione dell’economia e delle tecnologie ha disintermediato la democrazia del Novecento in tutto l’Occidente. La libera circolazione dei capitali e quella quasi libera delle merci hanno messo nell’angolo di Stati, i Governi, e hanno minato le basi economiche del welfare, della radice della nostra civilta` occidentale, sia quelle di natura fiscale tipiche dell’Europa, sia quelle di matrice aziendale tipiche degli USA.
Tutti ricorderete la crisi delle grandi case automobilistiche di Detroit a causa degli oneri previdenziali e sanitari derivanti dagli accordi con il sindacato (giusto per fare un esempio che ci sia vicino, come storia, in
seguito all’esperienza FIAT). Il predominio della finanza, figlio di questa globalizzazione, ha ridotto le imprese a fonte di valori monetari, da realizzarsi di trimestre in trimestre, anziche´ continuare a farle diventare sempre di piu` comunita` di lavoro, fonte di valori monetari sı`, ma da realizzarsi nel tempo perche´, in fondo, le imprese possono diventare anche un progetto di vita per chi le promuove e per chi vi collabora. In un mondo che sa in tempo reale – gli basta un click – il prezzo di tutte le cose, ma va perdendo la conoscenza dei valori, l’impresa come progetto di vita sopravvive nella piccola dimensione e costituisce una ricchezza, anche etica, dell’Italia; una ricchezza che il pensiero economico mainstream tende a dimenticare. Tuttavia, anche questa medaglia, questa faccia positiva della medaglia, ha il suo risvolto. La moralita` ha molto a che fare con l’economia, anche con l’economia di mercato. Adam Smith scrisse «La ricchezza delle Nazioni», ma anche «La teoria dei sentimenti morali»: l’una non regge senza l’altra. Però, in questo nostro Paese, che ha conservato un approccio all’economia piu` morale di quello anglosassone, la moralita` si e` persa per strada, all’incrocio tra la funzione del Governo e quella dell’impresa, dando luogo alle Tangentopoli che si rinnovano, una piu` triste dell’altra. Di piu`: la moralita`, che alimentava la spinta dei Padri costituenti al di la` delle convinzioni politiche, allora assai piu` diversificate di oggi, si e` andata perdendo anche nel rapporto tra la politica e i cittadini. La prima si e` fatta casta. Al di la` delle molte eccezioni personali, questa e` la percezione pubblica, intermediata dai media. Si e` fatta tale quanto piu` si e` rivelata incapace di incidere sui processi reali, evitando, per esempio, la graduale marginalizzazione della classe media a favore della concentrazione della ricchezza nelle mani di chi si trova a governare i flussi della finanza. Il successo, di critica e di pubblico, di studi come quelli di Thomas Piketty e – aggiungo – di un Emmanuel Saez o di un Branko Milanoviç, dimostra quanto il fenomeno sia percepito come pericolo dalle classi colte. La generalita`dei cittadini si e` ripiegata sul proprio particulare: lo testimoniano i dati sull’evasione fiscale e sugli abusi di ogni tipo (oggetto di ricorrenti condoni), ma anche quelli sulla partecipazione al voto, sempre piu` bassa, come si e` visto anche nelle recenti elezioni europee.
Se l’impotenza della politica e` l’origine piu` profonda della sfiducia, in Italia aggravata dalla percezione di una insopprimibile corruzione, ben si comprende come questa sfiducia colpisca i Parlamenti prima dei
Governi. Ben si comprende come i politici dalle forti ambizioni intendano in vario modo subordinare l’attivita` legislativa, tipica dei Parlamenti, alle decisioni dei Governi, qualunque sia la forma che queste assumano. Il primato della governabilita` come declinazione contemporanea della prevalenza dell’etica della responsabilita` sull’etica della convinzione di weberiana memoria risale gia` a Bettino Craxi e alla sua battaglia all’interno
della sinistra. Con il tempo e con l’approfondirsi della crisi della golden age rooseveltiana, le leadership della politica tendono a mascherare la propria impotenza rispetto all’economia globalizzata scaricando sui Parlamenti e, piu` in generale, sulle rappresentanze sociali e sui cosiddetti corpi intermedi la responsabilita` di un fallimento. E` un gioco di specchi, un’illusione che durera` fino alla ricaduta nella crisi che si e` manifestata con il crack esemplare della Lehman, ma che traeva origine proprio dalla prevalenza della finanza sulla produzione, del denaro sull’uomo, che ha condotto al declassamento della classe media.
La vera emergenza dell’Occidente democratico, mentre nel mondo si affermano i capitalismi di Stato variamente autoritari e le multinazionali senza patria, non sta nella crisi del parlamentarismo, che pure e` un dato
della realta`, ma nella crisi delle idee, che attanaglia anzitutto i Governi, quelli europei in primis (e i trattati che regolano l’Unione europea e la Banca centrale europea), nella subalternita` intellettuale al pensiero unico
e al sistema di interessi, che ne costituisce la matrice e che ha catturato, al di qua e al di la` dell’Atlantico, il sistema politico e le autorita` di regolazione. Un pensiero – spiace dirlo – che riaffiora anche nel nostro Premier,
che pure ambisce ad essere nuovissimo, quando gioisce per il passaggio del controllo di Indesit all’americana Whirlpool. Puo` essere benissimo che questa sia la soluzione possibile alla ritirata, anch’essa perfettamente
legittima, di una famiglia dall’impegno diretto nel capitale di rischio di una grande intrapresa industriale, ma a Palazzo Chigi non dovrebbe sfuggire che questo e` il piu` recente, ma temo non l’ultimo, di
una serie di passaggi della proprieta` di grandi aziende italiane, nel quale passaggio il capitalismo italiano, industriale e finanziario, non ha saputo fare proposte e assumersi responsabilita` per generare un ricambio che trattenga in Italia, oggi e domani, le energie migliori.
Non e` nazionalismo questo. A suo tempo, mi augurai che, di fronte a trent’anni di inconcludenza della FIAT, l’Alfa Romeo fosse venduta alla Volkswagen, interessata al marchio e alle fabbriche (ripeto: alle fabbriche)
per farne una seconda Audi. Avremmo avuto in Italia un secondo produttore di auto, un po’ piu` di concorrenza, un soggetto nuovo per una dialettica imprenditoriale e magari anche sindacale piu` ricca. Cosı` non e` stato. Oggi Marchionne promette di fare quanto ha promesso e non ha mantenuto piu` volte. Come direbbe Renzi, speriamo che sia la volta buona.
Ma che sia in atto una crisi del capitalismo italiano nell’affrontare la grande dimensione dell’intrapresa, che sia in atto un’abdicazione all’estero generalizzata, ad altri sistemi di interessi, e` un dato di fatto che dovrebbe
interrogare noi Parlamento e voi Governo. E invece il Governo sembra baloccarsi in una visione, diciamo cosı` bocconiana, degli investimenti esteri, senza distinguere tra greenfield, sempre augurabile, e brownfield, da vedere invece caso per caso. Noto che perfino il «Financial Times», non solo il Labour party, apre un radicale dibattito sugli effetti industriali negativi che potrebbe avere nel Regno Unito l’acquisizione della grande casa
farmaceutica britannica Astra Zeneca da parte dell’americana Pfizer. I nostri rinnovatori sono fermi agli anni Novanta. Ho fatto questo excursus tra storia ed economia per ancorare alla necessita` e all’utilita` che il processo di decisione politica conservi nel nostro Paese uno spazio per la dialettica, per il diverso pensare: uno spazio vero, non un simulacro di spazio. La concentrazione del pensiero in un unico modello asservito a un unico potere, sia pure eletto, ha gia` portato il mondo sull’orlo di un baratro come non si vedeva dagli anni Trenta del secolo scorso. Rivendendosi come somma efficienza, questo sistema si e` rivelato somma inefficienza.
Ora, il Governo ci propone una legge elettorale, detta Italicum, che tende a creare un duopolio di Partito Democratico e Forza Italia: parlo della mia casa. E ` un esito che dovrebbe essere sottoposto all’Antitrust
della politica, se mai questo tipo di Antitrust ci fosse. Ancella dell’Italicum,  ecco questa riforma del Parlamento, che tende a risolvere la crisi del parlamentarismo abolendo il Senato, anziche´ riformandolo seriamente.
So bene che, formalmente, non c’e` alcuna abolizione, ancorche´ questo concetto sia stato speso piu` volte dai pulpiti piu` autorevoli. Si dice per semplificare, per farsi capire in televisione, per comunicare, perche´ la comunicazione e` l’anima, non solo del commercio, ma anche della politica.
So bene che il disegno di legge Boschi, migliorato in talune parti dal lavoro della Commissione affari costituzionali e dei relatori, Anna Finocchiaro e Roberto Calderoli, che anch’io ringrazio per un impegno che
hanno profuso come fossero novelli Cirenei.
So bene che qui si ridisegna il Senato e non lo si chiude. Ma l’idea che il bicameralismo paritario, sul cui superamento siamo tutti d’accordo e non c’e` questione, porti ad una seconda Camera i cui membri sono scelti,
uno su dieci, da una platea di meno di mille persone, i consiglieri regionali, che non hanno nemmeno avuto questo mandato, questo esito toglie al Senato prossimo venturo l’autorevolezza necessaria per proporsi come istituzione politica, come Camera alta, eletta con metodo proporzionale e dunque fedele specchio della Nazione, come istituzione capace di interloquire con una Camera bassa, eletta con metodo comunque maggioritario e
depositaria del rapporto fiduciario con il Governo, titolare della legge di bilancio e della legislazione ordinaria.
Gia` oggi il Governo non risponde a richieste formali del Senato – non so se alla Camera lo ha fatto – di riferire sulle nomine fatte nelle grandi societa` pubbliche, che valgono piu` dei Ministeri, in esecuzione
di un impegno che pure aveva preso davanti al Senato. Figurarsi come sara` dedito all’accountability un domani, quando andranno a regime l’Italicum e questa riforma del Parlamento. Nel mondo, dove c’e` piu` rispetto per la circolazione del denaro e delle merci che per la circolazione degli esseri umani, in questo mondo dove rifioriscono gli integralismi religiosi contro i diritti civili e il rispetto delle religioni altrui, in questo mondo non tranquillizza affidare tutto il potere reale a una sola Camera eletta con un Italicum e dunque bloccata dal partito che puo` designare a un tempo i deputati e i ministri, e pure il Presidente della Repubblica e finanche la maggioranza della Corte costituzionale, direttamente ed indirettamente.
Il premier Matteo Renzi mostra di offendersi quando si dice che la riforma «come la vuole lui» rischia di ridurre il tasso di democrazia reale a vantaggio di partiti forti con le idee deboli. Ma formulando questo timore,
non si accusa, ne´ lui ne´ chi come lui la pensa, di essere antidemocratici. Le persone dovrebbero sapere che la democrazia e` un compromesso variabile tra rappresentanza ed esecuzione, tra dibattito e azione.
Il suo approccio – l’approccio di chi ispira questa riforma – e` figlio del nostro tempo e ha molto poco di rivoluzionario.
Mi si consenta di chiudere con le parole di un fiorentino che non era rivoluzionario, a proposito di come si dovessero eleggere i reggitori della sua citta`: «Se uno merita, non s’ha a stare a giudicio de’particolari, ma del
popolo, el quale e` el principe ed e` senza passione. El popolo cognosce meglio ognuno di noi che non facciamo noi stessi. Ne´ ha avuto altro fine se non di distribuire le cose in chi gli pare che meriti». Chi scriveva
si chiamava Guicciardini. Correva l’anno 1512. Cio` vale anche oggi.  Un’ultima confessione e concludo davvero. Devo dire che da giovane ero innamorato del pensiero di Antonio Gramsci, e dunque a Guicciardini
preferivo Machiavelli, maestro supremo di scienza politica. Con il tempo, leggendo anche altro, ho capito i limiti del Segretario fiorentino, soprattutto con la riflessione sul tentativo che fece il suo eroe, il Valentino, Cesare
Borgia, di unificare l’Italia – obiettivo meritorio – con il pugnale, il veleno e la guerra e su come e perche´ quel tentativo fallì.

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